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Eclissi lunare 27/07/2018

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Eclissi lunare 27/07/2018

Eclissi lunare 27/07/2018

Eclissi lunare 27/07/2018

La più grande sconfitta di un individuo

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La più grande sconfitta di un individuo: estratto di Il mondo dei desideri di Igor SibaldiProva a pensare: La mia vita non vale niente, così come l’ho vissuta. Non ho fatto né quel che potevo né quel che dovevo. Sono in debito verso di me, il mio comportamento è stato ingiusto verso di me. Sono stato uno stronzo con me stesso. Scappo. Sono sempre scappato da me. Così non mi piaccio e decido che questo mio io è finito. Da oggi.
Penso che non ci sia sconfitta più grande di questa, per un individuo. Ma l’ignoranza si sconfigge solo così.
I meccanismi di difesa si sgretolano così, e tutta la prigione in cui ti hanno rinchiuso va in pezzi.
Le tue paure rimangono indietro, così, sempre più lontane…

Il mondo dei desideri. Igor Sibaldi. Edizioni Tlon 2016, pag. 131

Sempre una questione di soldi

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Ormai lo si sa che tutto ruota attorno ai soldi, eppure non ci si finisce di stupirsi (o disgustarsi, a seconda dei gusti) di come non ci sia limite a che cosa ci si attacchi per tirare acqua al proprio mulino.
Ne sono esempio le proteste di chi in questi giorni sta protestando perché si vede decurtata la propria pensione d’oro dopo averne goduto per anni, senza propriamente meritarsela, dato che non sono stati versati contributi sufficienti per usufruire mensilmente di simili cifre.
Oppure gli attacchi feroci che sta subendo il decreto Dignità. Si può disquisire sulla giustezza del nome o su certi passi indietro che sono stati fatti dopo i proclami iniziali (rimettere i voucher dopo che erano stati eliminati non è una bella mossa); lo si giudicherà una volta che la sua versione definitiva sarà attua ed entrata in vigore. Ma se si ragiona obiettivamente, ci sono delle idee giuste.
Il divieto alla pubblicità del gioco d’azzardo, è una di queste, perché davvero il gioco sta diventando una patologia grave che sta distruggendo l’individuo e quanti sono legati a esso; è una contraddizione che si spinga a giocare (e così a spendere soldi per alimentare un mercato sempre più fiorente), facendo ammalare le persone creando dipendenza e poi dopo ci si metta la coscienza tranquilla con frasi dette velocemente a fine pubblicità di giocare con moderazione, che il gioco può causare dipendenza patologica, oppure facendo campagne che mettono in guardia da questa dipendenza. Una vera contraddizione creare la malattia e poi, sempre chi ha creato tutto questo, faccia sorgere centri che la curano. La cosa migliore sarebbe non fare ammalare, ma quello che contano sono i soldi: facendo come è stato fatto finora, i soldi che girano sono davvero tanti, visto che prima li si spendono per ammalarsi, poi li si spendono per farsi curare.
Come è giusto porre un freno alle delocalizzazioni selvagge (dopo aver avuto aiuti di stato), al limite dei rinnovi dei contratti a tempi determinato (anche se c’è già stato un cedimento su questo fronte con i rinnovi per i lavori stagionali) e ai licenziamenti selvaggi. Se le cose non cambieranno, il decreto Dignità pare essere volto a dare delle tutele ai lavoratori. E che sia dalla parte dei lavoratori lo si può capire dalle reazioni degli imprenditori che minacciano di scioperare e di non assumere più nessun lavoratore. Come se non bastasse, c’è l’intervento di Berlusconi che accusa che il decreto non solo è contro le imprese, ma anche contro i lavoratori, perché li penalizzerà, farà perdere posti di lavoro; dulcis in fundo, accusa Di Maio di non conoscere il mondo del lavoro. Probabilmente l’ultima affermazione è vera, ma non starebbe a Berlusconi fare certe affermazioni, dato che neppure lui conosce il mondo del lavoro: lui ha solo comandato, non ha mai lavorato, non è mai stato in fabbrica, non hai mai fatto otto o più ore di lavoro al giorno mal retribuito, facendo straordinari che non venivano pagati, lavorando in condizioni critiche, anche pericolose per portare a casa un misero stipendio per cercare di sopravvivere.
Non si sa come andrà a finire, ma si sta cercando di tornare a una vita che tutela un po’ più la persona, visto che si sta discutendo anche di tornare a far star chiusi i negozi la domenica. Una proposta che sta sollevando polemiche e isterie (chi vuole i negozi sempre aperti annuncia che se ci sarà chiusura si perderanno centinaia di migliaia di posti di lavoro), ma se si vanno a guardare i dati, l’apertura domenicale non ha assolutamente portato quei favolosi introiti che si annunciava quando la cosa cominciò.
La verità, se ancora non la si fosse capita, è che i gruppi che dirigono, vogliono guadagnare sempre di più, sfruttando sempre più le persone, cercando di pagarle sempre meno: il loro sogno è di avere gente che lavora e non deve essere pagata. Si ritengono innovativi, esseri che guardano al futuro, ma in realtà il loro sguardo è fisso al passato e a qualcosa che c’è già stato: la schiavitù.

Girasoli

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Girasoli

Girasoli

Non è più una questione di sport 4

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I Mondiali di calcio ormai sono conclusi e si può tranquillamente dire che non sono stati dei bei Mondiali: lo spettacolo in campo non è stato il massimo (fortunatamente non c’è stato un altro tipo di spettacolo fuori del campo di gioco e ci si riferisce a scontri tra tifosi o anche peggio; visto il periodo che si sta vivendo, questo può già essere considerato un successo). A parte alcune partite, non si è visto un bel gioco e i giocatori più attesi nella maggior parte dei casi hanno disatteso le aspettative.
Neymar, esempio di cosa non fare nello sportQuesto Mondiale verrà ricordato più che altro per le sceneggiate fatte in campo da tanti calciatori per i falli subiti, uno su tutti Neymar: è stato uno spettacolo ridicolo vedere gente allenata, che deve essere abituata al contatto fisico, rotolarsi a terra appena veniva toccata come se gli fosse stata rotta una gamba.
Non solo: anche se c’entra poco o nulla, più che per le sue partite, sarà ricordato per l’affare del secolo, ovvero il passaggio di Cristiano Ronaldo dal Real Madrid alla Juventus. A parte il battage pubblicitario mondiale esagerato (è stata una delle notizie più seguite, più di quelle che dovrebbero essere veramente importanti, dove c’è in ballo la vita di tante persone), quello che dovrebbe far pensare sono le cifre di questo affare. Negli ultimi anni si è vista una lievitazione dei prezzi del costo del cartellino dei calciatori e dei loro stipendi; il calcio non è certo l’unico sport che vede simili cifre: c’è la Formula 1, il basket e il football americano. Tuttavia, come anche per questi sport, sentire stipendi con così tanti zeri risulta davvero stridente considerando che tanti non hanno i soldi nemmeno per comprarsi un tozzo di pane e devono andare alle associazioni caritatevoli o cercare tra gli scarti della spazzatura per sfamarsi.
Nell’affare Ronaldo pare che sia intervenuta anche la Fiat (legata come si sa alla Juve per via della famiglia Agnelli): questo ha fatto indignare tanti, soprattutto lavoratori di questa ditta. Il che non sorprende, visto quello che negli ultimi anni hanno dovuto passare (mesi di cassa integrazione, rischio di perdere il posto, aumenti di salari che non avvengono da tempo). Naturalmente c’è stato chi ha cercato di difendere l’operato di Juve e Fiat, asserendo che sono due cose separate, che questo è il mondo degli affari e bisogna cogliere opportunità che danno risalto e possono portare altri soldi.
Soldi. Non si fa che pensare ai soldi. Ognuno può pensare quello che crede, ma rimane il fatto che simili cifre (quando ci sono migliaia, milioni di persone che, quando hanno uno stipendio, fanno fatica ad arrivare a fine del mese per avere il minimo indispensabile per sopravvivere) sono un insulto.
Questo non è più sport: questa è soltanto l’Era dell’Economia. Sarebbe ora di darci un taglio, ma purtroppo per molti vale la legge dello “show must go on”.

Vento & Flipper

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Vento & FlipperVento & Flipper raccoglie le prime due opere scritte da Haruki Murakami, Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 scritte nel 1979 e nel 1980. Spinto da un’ispirazione improvvisa assistendo a una partita di baseball, Murakami, di notte, seduto al suo tavolo di cucina al ritorno dal lavoro, scrisse i suoi primi lavori, non senza difficoltà, cercando di trovare un modo di scrivere che lo soddisfi. La ricerca giunge a buon fine quando decise per prova di scrivere il suo primo romanzo in inglese, dopo un tentativo non andato a buon fine. La poca conoscenza dell’inglese lo portò a scrivere frasi brevi, costringendolo a trasmettere i suoi pensieri con parole semplici, a essere sintetico. Il tentativo gli fece trovare un suo ritmo; comprese che per impressionare il lettore non era necessario usare parole difficili né servirsi di un linguaggio elegante (una lezione che dovrebbero imparare tutti quelli che vogliono scrivere). A quel punto a Murakami non rimase che trasportare il lavoro fatto in inglese nella sua lingua, facendo così emergere uno stile tutto suo. La sua prima opera, Ascolta la canzone del vento, vinse il premio per esordienti. Da lì cominciò la sua carriera di romanziere.
Che cosa dire di Vento & Flipper?
Si avverte che sono le opere di esordio di Murakami, uno scrittore non ancora maturo, ma in esse si trovano i semi delle sue opere future, con elementi che lo scrittore userà in altri romanzi come a esempio A sud del confine, a ovest del sole. Ascolta la canzone del vento e Flipper, 1973 narrano la crescita dei due protagonisti, che dai tempi della scuola passano all’età adulta. Viene mostrata la ricerca di trovare qualcosa di cui si sente il bisogno ma che non si riesce a definire, la perdita di qualcosa che più non torna quando si cresce. Tutto è pervaso da una malinconia alle volte dolce, alle volte feroce, dove i punti di partenza sono la fine delle esperienze che hanno portato fino a lì. Non si può non notare come i locali abbiano un ruolo importante nelle opere di Murakami (queste due non fanno certo eccezione), dato che per diversi anni lui ne ha posseduto e gestito uno. Come non si può non accorgersi che la musica fin dagli inizi per lo scrittore è un elemento essenziale per la narrazione delle vicende.
Vento & Flipper, non sarà il capolavoro di Murakami, ma per un esordio è qualcosa di davvero meritevole.

Il campo da basket

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Seduto sulla panchina, osservo la linea del tiro da tre punti: sbiadita, in alcuni tratti mancante.
Alzo lo sguardo sul tabellone dall’angolo sbrecciato. La retina del canestro è sfilacciata.
Il campo da basket ha visto tempi migliori, ma, per quello che devo fare, va più che bene. Anzi, direi che è adatto a un ex-giocatore alla soglia dei trent’anni.
Forse esagero a definirmi ex-giocatore: è un termine che si usa per i professionisti e io non mi sono neanche avvicinato a esserlo. Da adolescente ho incolpato il mio metro e novanta, ritenendolo troppo poco per poter giocare in serie A.
“Se fossi alto due metri, allora sì che cambierebbero le cose” continuavo a ripetermi.
Ma non è l’altezza a fare la differenza, come hanno insegnato Allen Iverson e Muggsy Bogues. Non la fanno neanche le doti fisiche da sole, anche se sicuramente danno una mano: questo l’esperienza sul campo me l’ha insegnato. Però, se a quei tempi avessi potuto allenarmi di più, invece di dovermi occupare dello studio come volevano i miei genitori, i miglioramenti sarebbero stati maggiori. Ma non sarei diventato un campione. Di Michael Jordan ne nasce uno ogni tanto e quell’uno non ero io, anche se l’io adolescente di allora non lo avrebbe ammesso. Mi consideravo un genio del basket, proprio come Hanamichi Sakuragi.
Hanamichi Sakuragi, genio del basketMi scappa da ridere: quanto avevo in comune con quel personaggio strampalato. L’avvicinarmi al basket per via di una ragazza, le prese in giro dei compagni di squadra perché all’inizio non conoscevo le regole, le cazzate in partita, le arrabbiature per le sconfitte, gli scontri con gli avversari.
Tiro fuori il pallone dallo zaino e comincio a palleggiare.
La mia vita come la storia di un fumetto.
Sembra qualcosa di unico, ma unico non è. Come me ce n’erano tanti.
Sembra qualcosa di divertente, ma non lo è stato come avrebbe dovuto. Non mi godevo il gioco per via della voglia di vincere sempre, anche se si trattava di un semplice allenamento.
“Quando si gioca con te sembra di essere in guerra” mi rinfacciò una volta un compagno di squadra a muso duro.
Aveva ragione. Ero troppo competitivo. Ma quella era anche la mia qualità migliore. Non mollavo mai.
“Sei un leone.” Ricordo ancora con orgoglio le parole che mi disse una volta un avversario. “Vorrei sempre avere in squadra giocatori con la tua volontà.”
Volontà. Qualità imprescindibile per emergere. Mi permise di ritagliarmi il mio posto in squadra. Non so quando avvenne di preciso, penso verso i diciotto anni, ma capii che non sarebbe bastata per compiere il salto di qualità. Con l’impegno e la costanza avrei potuto colmare le lacune che avevo, ma niente al mondo mi avrebbe fatto avere la lucidità necessaria nei momenti decisivi. Il mio limite è sempre stato di non sopportare la tensione. L’ansia di voler ottenere il massimo, essere il migliore, mi caricava di pesi che mi facevano rendere meno delle mie reali potenzialità e commettere errori quando non dovevano essere commessi.
Il rendermi conto del mio limite però non mi ha sconfortato, anzi, è stata una sorta di liberazione. Ho cominciato ad accettare che fare errori non è la fine del mondo. Cercare di migliorarsi è un bene, ma pretendere la perfezione porta solo a ossessioni.
Da quel momento il basket per me è diventato un piacere. Molti miei amici, superati i venti anni, hanno smesso di giocare, addirittura non hanno mai più toccato un pallone; ma io, anche dopo aver lasciato la squadra, tutte le volte che i miei impegni me lo permettevano, andavo in un campo di basket a fare qualche tiro.
Questo però è rimasto il mio preferito. Il torrente che scorre al suo fianco e che fa un gorgoglio piacevole. I tigli lungo il perimetro di gioco, verdi d’estate e gialli in autunno. Le colline boscose che circondano la zona.
E poi ci sono i ricordi.
Passai l’estate dei miei sedici anni ad allenarmi su questo campo. Rammento con piacere le giornate passate qui; quante partite con i miei amici. Quanto sudore ho lasciato su questo cemento.
Ma non c’erano solo fatica e agonismo. Alle volte, finito di giocare, mi sedevo sull’erba e guardavo il tramonto. Il sole che scendeva dietro le colline, il cielo che si colorava di sfumature dorate e pian piano degradava in colorazioni rosso-arancio, per poi sbiadire nel viola e mutarsi nell’azzurro-blu che precedeva il giungere della notte.
Allora non me ne resi conto, proteso in avanti com’ero, ma quello fu un periodo davvero felice, a tratti addirittura magico, dove tutto pareva possibile. Non ho più provato quelle sensazioni.
Mi alzo e sempre palleggiando vado a canestro con un terzo tempo. Quando i miei piedi toccano di nuovo il suolo, il ginocchio sinistro mi lancia una fitta. Lo massaggio e sistemo meglio la fascia.
“Meglio andarci piano.”
Un tiro dopo l’altro comincio a riscaldarmi. Osservare la parabola che la palla disegna in aria, sentire il ciaf della retina quando entra nel canestro, sono sensazioni che non possono essere spiegate a chi non ama il basket. Non avrò avuto il successo che desideravo, ma forse è meglio così, perché se fosse divenuto un lavoro avrebbe perso probabilmente tutto il suo fascino.
Ho un solo rimpianto. La finale regionale.
Quella sarebbe stata l’ultima partita che avrei giocato. Non pretendevo di vincerla, anche se ci tenevo: tutto quello che volevo era avere la possibilità di scendere in campo, impegnandomi al massimo delle mie possibilità. Volevo soltanto quell’opportunità.
Non sono riuscito neppure a mettere piede sul parquet. La partita fu sospesa a metà del primo quarto per una rissa tra un mio compagno e un avversario, che diede il via a una più grossa tra i genitori scesi in campo dagli spalti.
Quello era il mio momento di gloria e fu rovinato da persone che nulla ci avevano a che fare. Impotente, rimasi a guardare adulti che si prendevano a calci e pugni, senza riuscire a pensare a nulla. Solo quando tutto finì e venni a sapere che la partita, per gli incresciosi eventi, non sarebbe stata più disputata, non assegnando il titolo a nessuno, che provai una gran rabbia; avevo perso qualcosa cui tenevo senza averne colpa, senza avere neppure l’opportunità di averci provato.
Si dice che il tempo guarisce molte cose, ma ancora oggi provo la delusione di non aver potuto giocare quell’ultima sfida. Un’occasione mancata di un niente, proprio come il mio tiro sotto canestro che rimbalza quattro volte sul ferro prima di uscire.
«Ehi, zio» mi sento chiamare alle spalle «ti fai un uno contro uno?»
Mi volto e vedo un ragazzo abbronzato, sicuro di sé. Mi ricorda un po’ me, sempre pronto a sfidare chiunque per dimostrare di essere il più bravo. Solo che rispetto a me è più tatuato.
Mi avvicino a lui oltre la linea dei tre punti. «Vince chi arriva a ventuno?»
Abbozza un sorrisetto abbassando lo sguardo sulla mia fascia. «Sicuro.»
Sorrido in risposta. Mi considera un avversario facile da battere. «Ti va bene se comincio io?»
Allarga le braccia. «Fai pure.» Continua ad avere il sorrisetto dipinto sul volto.
Non ha minimamente capito quello che sta per accadere.
Il tiro in sospensione da tre punti parte senza che lui riesca a mettersi in guardia. La palla entra nel canestro senza toccare il ferro.
Il ragazzo mi guarda a bocca aperta.
«Vale la regola del chi segna regna?» gli chiedo.
«Certo» dice mentre si affretta a recuperare la palla e a riconsegnarmela.
Gli anni passano e molte cose cambiano. Ma ce ne sono alcune che non lo fanno; si possono dimenticare, rimanere assopite a lungo, ma prima o poi tornano a saltare fuori, perché certe nature non possono essere cambiate.
Scocco il tiro da tre punti sorprendendo di nuovo il ragazzo. Sorrido mentre il suono della retina che viene stracciata risuona sul campo.
Potrò anche essere più tranquillo e razionale di quando ero giovane, ma non ho perso la voglia di vincere.

Fuochi di una notte d'estate

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Fuochi di una notte d'estate

Fuochi di una notte d'estate

Fuochi di una notte d'estate

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La follia che avanza

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“A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca sempre” dice un famoso proverbio che spesso ci azzecca. Ma per l’attualità non serve affidarsi a vecchi detti: basta osservare un poco e conoscere la storia per sapere che corso prenderanno gli eventi. E con quello che sta accadendo adesso, è qualcosa di abbastanza prevedibile. Il caos ormai sta dilagando e se lo sta facendo è per colpa di una deriva nata da ottusità, ignoranza, arroganza, strafottenza e follia. Sì, ormai siamo alla follia. Il capo della Corea del Nord è un esempio. Trump non scherza di certo con il suo attaccare mezzo mondo e discriminare chi non è americano, arrivando a separare tra i migranti i figli dalle madri, rinchiudendoli in quelle che praticamente sono gabbie, tanto per dire uno dei tanti atti deplorevoli che sta attuando.
Guardando nel nostro orticello, le cose non vanno di certo meglio. Dopo la tragicommedia per creare un governo (dove le coalizioni di partenza sono state accantonate per crearne altre e andare al potere, a dimostrazione di cosa veramente importa ai politici), ogni giorno si deve assistere a scene che fanno sempre più capire dove si sta andando. Dopo i tanto sbandierati reddito di cittadinanza (con quali fondi si farà), decreto dignità, è la volta di Grillo (non si sa se per provocazione o se dice davvero sul serio) che si domanda se vivere in democrazia sia una buona cosa e se le nostre democrazie stanno funzionando bene (c’è per caso voglia di andare a creare una dittatura?), per poi passare a volere abolire le elezioni ed estrarre a sorte chi va a governare. Se questa non è follia e non è neppure una presa in giro, allora non si sa proprio come chiamarla.
Ma se tutto questo non bastasse per capire dove si sta andando, ecco l’ultima chicca: un lavoratore straniero chiede al suo datore di lavoro di andare in malattia e subisce insulti e minacce “Sei solo un bastardo islamico”. “Ti brucio vivo”. “Ora al potere c’è Salvini: posso anche ammazzarti”.
Fatti del genere, con un simile clima di odio, si erano già verificati decine di anni fa quando erano in auge fascismo e nazismo. Ora dicono che fascismo e nazismo non esistono più, sono morti; eppure la storia si sta ripetendo. A questo punto è chiaro che si sta venendo presi in giro e si cerca di celare la verità mentre la realtà prende sempre più piede. I segnali ci sono da tempo e da altrettanto tempo si sta mettendo in guardia dove si può andare a parare; poi non ci si meravigli, né si pianga né si recrimini, se si è andati a fare una brutta fine: ce la si è cercata.