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Il potere della parola

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La parola, un mezzo per dare forma a intenti e pensieri.
I pensieri, forma della volontà dell’essere.
Le parole, se non sono seguite da atteggiamenti concreti non servono a nulla; ma se la volontà che spinge a pronunciarle è forte, acquistano potere, diventano una forza. Una forza capace di influenzare gli altri e cambiare anche il destino del mondo. Una realtà che da sempre si verifica e di cui si possono vedere gli effetti: la parola di una sola persona in certe posizioni ha potere di vita o morte di un suo simile. O di un’intera nazione.
Ma questa persona non avrebbe nessun potere se non gli fosse consegnato da una moltitudine di suoi simili, un consenso avuto dalla maggioranza: nei secoli il modo di conferire potere si è modificato, ma è sempre l’espressione della volontà trasmessa attraverso la parola, scritta o parlata. Da sempre i popoli hanno concentrato, incanalato, proiettato le proprie energie su pochi individui perché li guidassero e decidessero per loro, facendoli così responsabili delle proprie azioni. E questa scelta comporta dei rischi, dato che sono altri a decidere e non si è responsabili della propria vita.
Da sempre religione, filosofia mettono in guardia su tale questione. Questo, per esempio, è riportato nella Bibbia, quando Dio non vuole accontentare il popolo ebraico che richiede la guida di un re. Il vero scopo delle religioni (e qui s’intende spiritualità, non istituzioni) è quello di rendere gli individui responsabili e consapevoli della vita che vivono, di fargli raggiungere quella centralità che consciamente o inconsciamente sono in ricerca. Insegnamento che tanto spesso pare sfuggire all’uomo: pochi riescono davvero a comprendere questo significato, sempre a cercare lontano o in altri ciò che già possiede. Una mancanza di comprensione che comporta delle conseguenze: nel piccolo, perché condiziona e limita la liberà personale, nel grande, perché può portare all’impoverimento d’intere nazioni, quando non addirittura la rovina.
Sembra davvero strano che un singolo possa fare così tanto. Eppure, se sostenuto da molti, se carico del loro supporto, può essere la causa della rovina del mondo.
La storia è piena di esempi di come la singola decisione di un uomo abbia portato rovina smisurata. Il pensiero va a Hitler, l’esempio più eclatante e vicino, è semplice fare subito riferimento a lui: sia per l’efferatezze compiute, sia per la particolarità della memoria umana a dimenticare i fatti, specialmente quelli più gravi (le vicende più antiche finisconono sempre più in fondo nel dimenticatoio della mente). C’è una sorta di volontà nel voler dimenticare, cancellare ogni traccia degli errori e orrori commessi, come quando si ha una ferita e la si ignora; ma se non si è consapevoli di essa e non la si cura, può riaprirsi o peggio, fare infezione, con molti più danni di quando è sorta. Così è per la storia (che è il ricordo e la comprendione dei fatti): se non se ne ha memoria, è destinata a ripetersi.
Il punto da comprendere è questo: che cosa avrebbe potuto fare quell’uomo se l’intera nazione non l’avesse supportato? Hitler non va assolto, il suo operato va giudicato e compreso perché non possa perpetrarsi nuovamente sotto nuove spoglie; la gente, ogni singolo individuo, deve essere consapevole che ogni decisione che prende personalmente influisce su quanto lo circonda e, più in grande, per il mondo in cui vive: se decide di appoggiare un pazzo o un malvagio, contribuisce a portare la rovina che l’altro semina.
Spesso per una scelta o un atteggiamento sbagliato si lascia correre, si dice “che volete che sia”, ma è da questo, dal piccolo che nascono i cambiamenti. Un uomo nel mondo è come una cellula nel corpo: senza si può vivere tranquillamente, ce ne sono milioni, miliardi come lei. Ma se la cellula diventa cancerosa, cosa succede? Si moltiplica, ne crea simili a lei e propaga il male di cui è portatrice, infettando il corpo, facendolo ammalare, alle volte uccidendolo. Perciò non bisogna lasciar correre quando c’è qualcosa di sbagliato, occorre accorgersene subito e porre un freno, prima che la situazioni degeneri.
Ognuno nel suo ambito deve stare attento a quello che fa, perché nessuno è in grado di prevedere l’esito futuro delle scelte effettuate, delle conseguenze che esse porteranno. Tuttavia esiste un fattore va tenuto a mente: la vita rende sempre quello che si fa, alle volte con gli interessi. Pertanto occorre essere sempre consapevoli di come si agisce, di come si usano le parole e del loro fine.
Possono essere usate per distruggere, ma anche per creare.
Possono essere usate per rendere qualcosa statico o per spingere al cambiamento.
Sono un mezzo e pertanto neutrali: il loro essere dipende da chi le utilizza e dallo scopo che esso persegue.
Attualmente la parola viene usata a sproposito, sciupata, facendo impoverire la lingua di un popolo e il popolo stesso; pochi ormai si rendono conto del suo peso, del suo effetto. E chi sa stimare il suo valore, sono spesso individui che la utilizzano nel peggiore dei modi per fare scempi, creare divisioni, odi.
Si dice che ne uccida più la penna che la spada.
La penna, un mezzo per dare forma scritta alla parola.
Spesso si fa un uso deleterio della parola scritta.
Ma se la parola ha potere, perché permettere che venga utilizzata in questo modo? Perché non usarla per opporsi, per porre un freno alla rovina? Perché non utilizzarla per creare, per crescere, invece che per distruggere?
Quando si comprenderà questo principio, quando ci sarà volontà a sostegno di esso, allora il modo di vivere diventerà migliore.

Umanità

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Hachico, protagonista del film omonimoLa vicenda di Hachiko ha fatto il giro del mondo grazie al film con Richard Gere, anche se risale al lontano periodo compreso tra il 1923 e il 1935 ed era già conosciuta. Ha avuto grande risalto, ha fatto commuovere ed è stata presa come esempio di fedeltà. Di vicende come questa ce ne sono tante, anche se non reclamizzate; dall’antichità si dice che il cane è il migliore amico dell’uomo, il più fedele.
Un animale che non chiede tanto, se non di avere da mangiare e poter restare vicino al compagno umano, ma che in compenso dà molto, capace di grande dedizione.
Un animale capace di essere vicino in qualsiasi momento, sia nei momenti difficili, sia in quelli felici, di amare l’uomo sia che sia ricco, sia che sia povero, sia che sia bello o brutto; un animale che accetta il compagno per ciò che è, senza pretese, senza soffermarsi sulle apparenze.
Un animale capace di un’umanità che l’uomo sembra avere smarrito, perso com’è nella sua corsa sfrenata, come una freccia scagliata verso il cielo che non vuole fermarsi, ma continuare a sfrecciare senza posa.
E’ questo che deve fare riflettere. Gli animali sono capaci d’umanità, quando l’uomo non è più in grado di farlo. Ci sono stati casi di delfini che sono accorsi in aiuto d’uomini attaccati dagli squali, che li hanno difesi, salvandoli da una brutta fine; un uomo ferito nella savana ha avuto per una notte come guardiano un bufalo, che ha vegliato su di lui perché i predatori non lo attaccassero.
Perché hanno fatto questo? Cosa dovevano a un appartenente di un’altra razza?
Assolutamente nulla, eppure lo hanno fatto.
Cosa li ha spinti a fare questo?
Di certo non il calcolo opportunistico che spesso guida le azioni dell’uomo e nemmeno l’istinto, perché questo spinge l’essere alla sopravvivenza e mettersi in una situazione di pericolo come quelle sopra citate, può essere controproducente al fine.
Allora che cosa ha guidato questi animali? Compassione?
Non so se si può definire in questo modo, perché le parole hanno dei limiti ed è sempre difficile definire e contenere qualcosa di così grande che trascende la ragione. Penso che in quegli attimi ci sia stato un barlume che ha ricordato come tutte le creature sono legate dallo stesso filo: la vita.
L’esistenza può assumere molte forme, ma dietro involucri differenti c’è sempre la stessa essenza. Veniamo dalla stessa origine, siamo la stessa origine. La diversità ci rende unici, ma questo non deve rendere separati.
Cosa che spesso succede invece. L’uomo non solo è separato dal mondo (non si sente parte di esso, ma lo vede come qualcosa da sfruttare), è separato anche dai suoi simili e da se stesso: isolato nel narcisismo, chiuso all’apertura verso la vita a causa del lavoro, del guadagno, delle ferie. Si concentra su cose del genere precludendosi all’ascolto di ciò che la vita ha da proporre. La sua corsa sfrenata gli ha fatto dimenticare il volto del proprio padre, ovvero le proprie origini. E con origini non si intende certo quelle famigliari, anche se importanti, ma qualcosa che va molto più in profondità: va all’essenza della vita stessa.
E’ come la storia della tartaruga. Questo animale era l’essere più veloce della terra, andava sempre di corsa ovunque andasse, ma un giorno inciampò e si ritrovò a fissare un cozzo di lattuga: era sul bordo della strada che percorreva tutti i giorni, ma che non aveva mai notato per la sua fretta. Da quel momento la tartaruga prese ad andare lentamente, per non perdersi più nulla, perché non avvenisse di accorgersi delle cose importanti quando ormai erano andate perdute.
Questo l’uomo ora dovrebbe fare: rallentare, guardarsi attorno, perché tutto quello di cui ha bisogno non è lontano, non deve raggiungere chissà quali mete per essere completo. Basta cercare vicino, nelle persone e cose che ha a fianco. E in se stessi.
L’uomo è come una pianta: ha bisogno del suo tempo per crescere bene. Affrettare comporta un processo rischioso e deleterio. Questo la natura, le bestie insegnano. Per questo, magari inconsciamente, molte persone hanno la compagnia di animali; ma nella società di oggi è anche un segno di come l’uomo non riesca più a stringere legami, contatti veri, con i suoi simili a causa dell’alienazione che la società costruita ha prodotto, ricercando un poco dell’umanità persa attraverso i compagni a quattro zampe.
Questo deve far pensare. Perché l’uomo ha perso così tanto di se stesso?

Declino

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“Quando sulla Terra le acque si prosciugarono, la gente disse:“la fine dell’umanità è prossima”. Ciascuno allora si preoccupò della propria sorte, trascurando ogni pensiero sull’immensità dell’universo, deridendo anzi quei pochi che confidando in un futuro migliore salparono verso gli spazi immensi del cosmo alla ricerca di altri mondi. Li chiamarono avventurieri a caccia d’illusioni, fuorilegge senza scrupoli, pazzi. La nostra storia risale a tanti anni fa, al lontano 2977.
Gli abitanti della Terra, in quei tempi lontani, vivevano in un clima di prosperità; pazienti e puntuali, numerosi robot emigravano su altri pianeti per ricavarne le più svariate risorse e trasportarle sulla terra. Il governo forniva gratuitamente alla popolazione tutto il necessario e nessuno aveva più bisogno di lavorare; per prevenire agitazioni e sommosse, il governo faceva trasmettere in ogni abitazione radiazioni ipnotiche, manipolando opportunamente le onde radio televisive. Di conseguenza, quasi tutti i terrestri erano mantenuti in uno stato di serenità incosciente.”

Così, nel 1976, comincia Capitan Harlock, manga di fantascienza creato da Leiji Matsumoto, dal quale nel 1978 è stato tratto un anìme.
Questa non vuole essere una disamina sul fumetto o la serie televisiva: serve a prendere spunto per una riflessione. E cioè come l’arte (in questo caso l’animazione, in altri casi la scrittura) possa essere un modo per mostrare a strada che certe scelte possono portare. In Capitan Harlock, come si vede dall’introduzione, le persone vivono indifferenti rispetto a quello che gli sta attorno e la loro avidità ha fatto sprecare tutte le risorse del pianeta: i mari sono stati prosciugati e molti beni vengono attinti da altri pianeti, perché ormai la Terra non è più produttiva. Oltre all’avidità, vivono in un perenne stato di accidia, non hanno più stimoli e bisogni: hanno tutto pronto, non devono nemmeno lavorare perché le macchine hanno sostituito l’uomo nei lavori più comuni. Vinti dalla noia, passano l’esistenza con il solo pensiero di come vincerla.
Come ormai sempre più spesso sta accadendo nella nostra realtà. Il livello di tecnologia non è al livello di quello mostrato nell’animazione e la gente ha bisogno di lavorare per mantenersi, ma, almeno nell’occidente ricco, ha più tempo libero e spesso non sa come impiegarlo; questo, unito a un calo di stimoli e mete da raggiungere (tutto si è standardizzato, compresi i sogni e desideri) ha portato a uno stato di noia e apatia che si cerca di vincere in ogni modo possibile. Dipendenze del passato si sono rafforzate (alcool, droga, gioco), altre sono sorte (sesso, internet), il tutto per sedare, anestetizzare, il malessere presente negli animi delle persone. Nell’anìme si parla di radiazioni ipnotiche mandate attraverso il segnale televisivo; non siamo a questo punto, ma una certa tipologia di trasmissioni televisive ha un certo potere sedante, più che altro appiattente, che abbassa il livello dell’energia e della consapevolezza delle persone, conformizzandole su uno stesso piano.
Fantascienza? Forse.
Ma anche Verne e Mary Shelley ai loro tempi erano considerati dei visionari. Influenzati dalle scoperte della scienza dell’epoca, realizzarono opere che trascesero la scienza stessa, quasi fossero casi di preveggenza; si trattava invece di un livello di consapevolezza tale che gli ha permesso di vedere oltre il recinto del loro periodo. Si può dire che Verne ha “predetto” lo sbarco sulla Luna e lo scandagliare gli abissi marini con decenni di anticipo. Mary Shelley ha “predetto” i trapianti di organi: in un qualche modo il ridare la vita a ciò che è morto, il Potere che da sempre l’uomo ricerca, il creare la vita. Chi aspetta un trapianto non può forse, anche se è brutale dire così, essere considerato un morto che ancora vive, perché condannato a morire anzitempo se non riceve un organo nuovo? E il trapianto non è per lui una possibilità di vita? (certo su questo argomento ci sarebbe aprire un’altra riflessione di questione morale su come sono nati i trapianti, e gli orrori sopportati per giungervi, e le speculazioni che ci sono dietro, ma non è l’argomento che si vuole trattare ora).
Leiji Matsumoto ha previsto, come altri prima di lui d’altronde, l’influsso sedante della televisione sulle persone. Ha mostrato politici occupati solo a divertirsi e a pensare di essere eletti, senza preoccuparsi di fare politica, ovvero organizzare e far funzionare al meglio ogni ambito della società per un maggior numero di persone possibili. Questo è il liet motiv attuale e la fotografia fatta più di trent’anni fa da tale autore rispecchia perfettamente il nostro tempo.
La gente, conformizzandosi ai modelli proposti dal tempo, non si preoccupa più dei problemi, non si prende più responsabilità, occupata a non vivere e a seguire vicende sportive e talk show, provando emozioni attraverso gli altri e non in prima persona. Attori troppo belli sono gli unici eroi, cantavano gli 883 negli anni ’90, una canzone che indicava la caduta di valori e ideali.
Pochi, davvero pochi hanno il coraggio di essere sé stessi, di vivere veramente e prendersi responsabilità verso l’esistenza.
Di tutto questo è esempio anche una vicenda presente nella Storia Infinita di Michael Ende. Bastiano, il protagonista delle vicende del libro, incontra gli Acharai, esseri vermiformi che vivono nel buio per la vergogna di mostrare il loro corpo, timorosi di offendere la vista di chiunque li veda. Vivono nel tormento e nel dolore, piangendo in continuazione. Un’esistenza triste e dannata, capace tuttavia di creare con le lacrime versate costruzioni di bellezza straordinaria. Oltre a essere un simbolo che la vera bellezza non è quella che appare, ma quella capace di costruire (e che nella sofferenza si possono trovare risorse stupende), sono anche un emblema di quelle generazioni che con sudore e fatica hanno ottenuto uno stile di vita migliore, perché senza sacrifici e impegni non si ottiene nulla (l’opposto di quelle che sono venute dopo, che hanno sperperato e rovinato tutto). Arrivati a questo punto, i tempi sono pronti per il cambiamento.
Bastiano, impietosito dalla condizione degli Acharai, i Perpetui Piangenti, avendo il potere di dare realizzazione a ciò che desidera, decide di cambiare la loro sorte, di renderla migliore (la stessa intenzione delle generazioni sopra citate, che purtroppo si scoprirà essere un male, anche se mossa da buone intenzioni). Le creature s’addormentano e al risveglio sono diventati gli Uzzolini, i Sempre Ridenti: esseri con ali da tarma colorate, vestiti con straccetti a quadri, a righe, tutti di misura sbagliata, messi insieme a caso. Niente era al posto giusto e dappertutto c’erano toppe. Le faccette erano dipinte come quelle dei clown, con nasi tondi e rossi o becchi ridicoli e bocche esagerate (cito alcuni brani del libro).
Una felicità finta; perché se è vero che la sofferenza è qualcosa di duro, è altrettanto vero che è un sentimento sincero. Mentre spesso, come la società dimostra, la felicità è qualcosa d’effimero, d’illusorio. Ed è così che si vive: nell’illusione. Come gli Uzzolini, si porta una maschera che simula felicità: una maschera dietro cui ci si nasconde per non essere se stessi, per non mostrarsi come si è realmente.
Questa è la generazione sorta dopo quella che tanto si è data da fare per ottenere qualsiasi cosa, che ha tentato di dare il meglio per chi veniva dopo. Ma se non si conosce il valore del conquistare con le proprie forze, tutto è destinato a essere perso. Lo insegna la storia, dove i successori di chi ha fatto grandi conquiste non hanno saputo mantenere quanto ottenuto perché non hanno consapevolezza di cosa si deve affrontare e superare per arrivare a certi punti.
Nel grande come nel piccolo.
Così gli Uzzolini (la nuova generazione nata dalla vecchia) non solo non sono capaci di costruire nulla, ma non sanno nemmeno mantenere, anzi distruggono quanto con tanti sforzi è stato costruito; sguaiati e sciocchi, pensano solo a divertirsi, rovinando quanto toccano.
Così è il presente che si vive.

626-Legge sulla sicurezza del lavoro

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“Robe come la 626 (la legge sulla sicurezza sul lavoro) sono un lusso che non ci possiamo permettere.” Così ha esordito Tremonti. Poche ore dopo, il portavoce Bravi s’è affrettato a precisare che per il ministro dell’economia “la sicurezza del lavoro è essenziale”

Le solite frasi di circostanza per cancellare parole che esprimono il pensiero di esponenti di spicco che sono al governo, per nascondere ciò che realmente è la linea guida della classe dirigente. Ormai la gente si è abituata a questo genere di cose, non ci fa più caso, ne è assuefatta e lascia correre. C’è da fermarsi e riflettere. Tutto questo non va assolutamamente bene, è totalmente sbagliato: a furia di lasciar andare, di permettere al lassismo e al disinteresse di prendere piede, si è finiti in un baratro che trascina sempre più in basso.
Robe: così è stata definita la 626, la legge che tutela la sicurezza sul lavoro e salvaguarda la vita di chi lavora. Questo termine dimostra disprezzo per la dignità dei lavoratori ed è la dimostrazione del valore che si dà alla vita umana. I lavoratori sono considerati oggetti da utilizzare e buttare via quando non sono più utili: carne da macello, ecco come sono ritenuti.
La vita umana, la dignità non hanno più valore: è questo il messaggio che passa. Ormai la morte ha talmente saturato la vita che non ci si fa più caso, la si tratta con indifferenza. Nei piccoli paesi dove le generazioni dei nostri genitori sono cresciute, la morte di una persona era un evento, un fattore che sconvolgeva, interessava tutta la comunità; ora è quotidianità, come andare al lavoro e fare la spesa. Non meraviglia, non tocca più.
Ma non si può morire per lavorare. Fatti di cronaca come questo non devono più succedere: è uno dei tanti, ma non deve più essere considerato solo un numero che va a sommarsi all’ammontare delle morti bianche. Ogni persona è importante, ogni morte lo è, non deve più essere solo un cumulo di numeri dati nei notiziari o sui giornali.
Siamo alla tragedia nazionale dove si muore per colpa del lavoro. Questo succede in un paese la cui forza è fondata proprio sul lavoro. Con il lavoro si crea ricchezza, ma, nello stesso tempo, uno rischia di morire ammazzato. E chi muore è sempre il lavoratore che mette a repentaglio la sua vita per sopravvivere. I diritti conquistati dai nostri padri sono stati perduti e calpestati. Anni di sacrifici, ma non è cambiato nulla d’allora, anzi è peggiorata la condizione operaia con le morti bianche.
Le promesse della politica che le morti bianche cessino e la falsa indignazione della classe dirigente sono solamente atteggiamenti retorici che durano un battito di ciglia. Il giorno dopo la scomparsa di un lavoratore non pensano più alle morti bianche, ma le persone continuano ad andare a lavorare con il pensiero che ogni momento potrebbe essere l’ultimo.
Il mondo del lavoro è un teatro di guerra altamente disumanizzato, con le persone ridotte a utensili, esistenze cosificate costrette a rincorrere la speranza di sopravvivere, anche quando in fondo a quella speranza c’è il concreto rischio di trovare la morte. Una guerra senza regole, senza senso e senza futuro, combattuta nel nome della produttività e della competizione sfrenata, dove tutti i soldati sono irrimediabilmente destinati a perdere, mentre a vincere sono soltanto i pochi burattinai che attraverso questa guerra costruiscono immensi profitti. E poco importa a loro se si tratta di profitti realizzati attraverso l’alienazione della vita umana.
E’ ora di dire basta.
Non si può morire per lavorare.
La vita e la dignità umana e personale devono tornare in primo piano ed essere tutelate a ogni costo, impedendo a chiunque di offenderle e toccarle.

Rami secchi

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I rami secchi vanno potati; se questo non avviene, si corre il rischio di far ammalare l’intera pianta, facendola soffrire, risucchiando le sue energie, indebolendola ogni giorno che passa, fino a quando tutto l’intero cessa di vivere.

Così è anche per ogni indivuo. Quando si trascinano situazioni, atteggiamenti sterili ci si indebolisce, si perde il gusto del fare e dell’essere: è questo il punto in cui ciò che non è più vivo va lasciato andare per non farsi trascinare verso il basso, per dare spazio al nuovo che avanza e che è pronto a germogliare.

Da un germoglio spunta un fiore, da un fiore un frutto, da un frutto un seme: e chi può dire quante mele ci sono in un seme?