Haven è l’undicesimo disco (pubblicato nel 2015) della band metal americana Kamelot, il secondo con Tommy Karevik come cantante al posto di Roy Khan, che aveva lasciato per motivi di salute. Fare paragoni con il passato e il predecessore non sarebbe corretto, quindi occorre prendere atto che da Silverthorn è iniziato un nuovo corso. Karevik se la cava bene, anche se in tanti rimpiangono Khan; se l’album non convince nella sua totalità, non è certo per responsabilità sua.
Partiamo dalle note positive.
“Fallen Star” convince grazie al suono della chitarra di Thomas Youngblood, ben accompagnato dalla voce di Karevik. Malinconica e potente.
“Veil of Elysium” parte subito forte, coinvolgendo con un ritmo trascinante. Tutto funziona e il brano avanza in un crescendo continuo. La miglior canzone dell’album, seguita a ruota da “Liar Liar (Wasteland Monarchy)”, altro brano altrettanto potente che vede le chitarre grandi protagoniste e la partecipazione della voce growl di Alissa White-Gluz.
Bella, seppur non ai livelli delle due precedenti, “My Therapy”, una canzone dalle tonalità ossessive, malinconiche, che a tratti fa riecheggiare una sensazione di abbandono e disperazione.
Da menzionare “Under Grey Skyes”, ballad leggiadra dalle note celtiche, dolce e romantica, che vede la partecipazione di Charlotte Wessels. Interessante “Here’s to fall” un lento dove regnano le sinfonie per piano e violini.
“Revolution” vede di nuovo la partecipazione della voce growl di Alissa White-Gluz, in un brano Black Metal veloce e ossessivo ma non riuscito in tutte le sue parti.
Che cosa non ha funzionato in “Citizen Zero”, “Beautiful Apocalypse”, “End of Innocence”, “Insomnia”? Tecnicamente sono ben realizzati, ma dopo il loro ascolto non c’è una strofa, un passaggio di chitarra o batteria che si faccia ricordare.
In conclusione, Haven, seppur non raggiunga livelli di lavori come Karma ed Epica, è un buon album, con diverse canzoni veramente valide e alcune senza infamia e senza lode.
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