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Uno zoo d'inverno

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Jiro Taniguchi dà il meglio di sé nel raccontare storie sul quotidiano: la sua calma, il suo soffermarsi sui piccoli gesti, il lasciare lo sguardo spaziare, sanno dare uno spessore alle storie che racconta come pochi altri autori riescono a fare.
Racconto in parte auotobiografico, Taniguchi in Uno zoo d’inverno narra le vicende del giovane Hamaguchi, impiegato di un’azienda tessile negli anni ’60 con la passione per il disegno. A differenza dei suoi coetanei che si dedicano al baseball, Hamaguchi preferisce passare il tempo ad andare allo zoo e disegnare gli animali in esso custoditi. Ragazzo introverso, si sente limitato e ristretto nel lavoro che svolge, fino a quando un amico che vive e studia a Tokyo non lo invita a raggiungerlo per fargli conoscere il maestro Kondo Jiro, fumettista che sta cercando un assistente.
Senza volerlo, all’improvviso, Hamaguchi si ritrova da subito trascinato a dare una mano allo studio del maestro e nel giro di un mese diventa il suo nuovo lavoro. Un lavoro dove si producono idee, dove i sogni si avverano, dove tutto è permeato dalla passione per il disegno e il fumetto. Anche se lo fa con piacere, disegnare fumetti è un compito faticoso, che fa fare spesso le ore piccole per rispettare le consegne. A Tokyo, Hamaguchi fa conoscenza di personaggi particolari come il signor Kikuchi, si confronta con i suoi colleghi, aventi come lui il desiderio di pubblicare una propria storia, ma anche con i timori della famiglia che il nuovo lavoro non gli permetta di guadagnare da vivere.
Hamaguchi, nonostante la voglia di disegnare un proprio fumetto, non riesce a trovare una storia da raccontare, fino a quando non conosce Fukiko, una ragazza che lo aiuta a sviluppare un’idea. Non solo: Fukiko diventa la ragione per cui Hamaguchi vuole scrivere la storia, dato che se ne innamora. Un legame non facile, dato che la ragazza è malata e deve passare dei lunghi periodi in ospedale. Hamaguchi riesce nel suo intento, con la sua storia che è specchio del legame con Fukiko, anche se, a differenza del protagonista del fumetto, non riesce a salvarla dalla malattia che la tiene prigioniera.
Uno zoo d’inverno è una storia lineare, che procede con calma, senza scossoni, ma riuscendo lo stesso a coinvolgere il lettore; in essa si respirano sogni da realizzare, obiettivi da raggiungere, ma anche delusioni, solitudine e le difficoltà della vita in una grande città. Delicato e a tratti commovente, Uno zoo d’inverno merita di essere letto.

Dio ama, l’uomo uccide

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Dio ama, l'uomo uccideDio ama, l’uomo uccide è una graphic novel di Chris Claremont disegnata da Brent Anderson; realizzata nel 1982, è ancora oggi di grande attualità, anzi, lo è forse più di allora. La storia, che ha ispirato il film X-men 2, vede il famoso gruppo di mutanti alle prese con il predicatore William Striker e i suoi Purificatori; ex militare, quando scopre che il figlio nato è un mutante, lo vede come un mostro e lo uccide, facendo seguire alla moglie la stessa sorte. Trovando conforto nella religione, si vede come un prescelto per portare avanti la crociata contro questi mostri. Dopo essersi assicurato potere economico e influenza mediatica, decide di colpire gli X-men, rapendo Charles Xavier, il potente telepate a capo del gruppo, e soggiogandolo con i suoi macchinari perché usi il suo potere mentale per uccidere tutti i mutanti. Non ha fatto però i conti con Magneto, un tempo nemico del gruppo, che ora si fa alleato degli allievi di Xavier.
Dio ama, l’uomo uccide è una storia in pieno stile X-men (quello degli anni d’oro di questa testata fumettistica), ma è anche una storia che denuncia l’intolleranza, l’odio per il diverso, il traviare gli insegnamenti religiosi piegandoli ai propri scopi.
Dio ama, l’uomo uccide mostra come certi personaggi in posizione di potere utilizzano i media per influenzare le masse con i loro messaggi distorti e pericolosi, generando odi, conflitti, proprio come sta succedendo nel nostro presente. Appellandosi al giusto, si commettono grandi atrocità e bestialità con chi è diverso, che non viene visto come un essere vivente, ma come un nemico che va eliminato. Una storia vecchia come il mondo quella dell’uccidere gli altri in nome di un dio o un ideale, ma che tanto spesso viene dimenticata; proprio per questo, opere come Dio ama, l’uomo uccide andrebbero lette per non dimenticare.

La vita è un rimbalzo (versione estesa)

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Tac. Il sassolino colpì il bordo di plastica, finendo poi nell’erba.
L’uomo sospirò. Ancora una volta non era riuscito a far centro nel bidone della spazzatura.
“Un tempo ci sarei riuscito al primo colpo.”
«Cos’è che dicevi? Io non sono il più intelligente, non sono il più bravo, ma sono il migliore in quello che faccio. Avevi ragione: sei il migliore nel fare schifo.»
Le parole dell’ex-moglie tornarono ad aggredirlo con forza. Il brutto era che non aveva torto. Ma sentirselo sbattere in faccia così faceva un male cane.
«È stata una fortuna che non abbiamo avuto figli, si sarebbero vergognati con un padre come te.»
Ferite che si sommavano ad altre ferite, fino a quando non si capiva dove finiva una e cominciava l’altra, e tutto era solo un dolore continuo che incalzava senza posa.
Fu tentato di sputare, come se questo servisse ad alleviare l’amarezza che provava.
Il matrimonio fallito, il licenziamento dal lavoro.
Erano state delle belle botte, però tanti ci erano passati e le avevano superate.
Ma non lui. Qualcosa gli si era rotto dentro e non era più riuscito a risollevarsi.
Serrò le labbra. Da un anno la sua vita si divideva tra il parchetto del quartiere e l’appartamento. Se ne stava ore seduto sempre sulla panchina più isolata, cercando di non pensare a niente, andandosene quando arrivava gente, come se sul viso si potesse vedere la vergogna che provava per la sua condizione. Rimaneva solo quando qualcuno veniva a fare due tiri al campo di basket; il rumore della palla che rimbalzava sul cemento o che sbatteva sul tabellone lo rasserenava, facendolo tornare ai tempi in cui non aveva pensieri e la vita non gli aveva riservato dei piatti amari da ingoiare.
Eppure ci aveva provato a rimettersi in pista. Eccome se ci aveva provato.
Il primo anno dopo aver perso il lavoro, non aveva fatto altro che cercarne un altro. Ricerche su internet, frequentazione di corsi per aggiornarsi, iscrizione a società interinali; aveva provato pure con i centri per l’impiego. Sempre la stessa storia. «Le faremo sapere.» Aveva imparato a odiare quella frase, perché ogni volta che l’ex-moglie gli chiedeva com’era andata e le dava quella risposta, vedeva nei suoi occhi crescere l’insofferenza, sentiva le sue parole farsi più pungenti.
«Che futuro c’è per noi se non trovi un altro lavoro? Come pensi si possa mantenere una famiglia?» gli ripeteva in continuazione. «Sono stanca di vergognarmi di te con le mie amiche, di non poter andare in ferie perché ci mancano i soldi.»
Aveva ragione. Senza soldi non si poteva fare niente, non si poteva andare da nessuna parte; anche i legami parevano dipendere da essi. Quei sentimenti che credeva così saldi si erano spezzati alla prima difficoltà, rivelando come quello che aveva costruito non era stato che una menzogna.
Anche dopo che l’ex moglie se n’era andata, aveva provato a negare l’evidenza, a dimostrare che la realtà non era quella che lei gli aveva sbattuto in faccia, ma poi si era arreso: era un fallito. E così era giunto il parchetto.
Posò lo sguardo sul libro accanto a sé. Strade nascoste, recitava il titolo; l’aveva trovato in una bancarella dell’usato. Gli uomini hanno dei limiti: è questa la benedizione e la maledizione della loro natura. Colpito dalla quarta di copertina, l’aveva comprato senza neanche sfogliarlo.
Scosse il capo. Chissà cosa aveva pensato di trovare in quel libro; magari una rivelazione che desse soluzione ai suoi problemi. Invece, quando aveva iniziato a leggerlo, si era trovato davanti un fantasy. Un fantasy con oltretutto una poesia; a quale autore veniva in mente di fare una cosa del genere?

Lascia ogni preoccupazione e fardello sulla strada percorsa
A nulla giovano allo spirito
Lascia che sia libero e leggero di andare a cercare se stesso
E una volta trovatolo, vivrai in pienezza.

Qui non troverai nemici da combattere
Dimorano solo nel tuo cuore
Sei tu l’unico nemico da sconfiggere
Armato inutilmente di logori atteggiamenti e abitudini.

Cammina leggero, privo di pesi.

Cercare se stesso… “Il mio io s’è perso e non saprei dove andare a trovarlo.”
Sei tu il nemico… Quindi era tutta colpa sua della condizione in cui si trovava…
Il suono di qualcuno che palleggiava lo distolse dalle riflessioni: dei ragazzi venuti a giocare.
Fece per tornare ai suoi pensieri, ma il rimbalzo di un secondo pallone lo fermò: sul campo da basket erano arrivate altre quattro persone, due uomini della sua età e due ragazzini. Probabilmente padri e figli.
Il nuovo gruppo si avvicinò all’altro, mettendosi a parlare.
“Organizzeranno una partita, ma gli manca un giocatore…”
L’uomo più robusto si voltò verso di lui. «Tu giochi?»
Da tempo nessuno gli chiedeva una cosa del genere. Anzi, da un pezzo nessuno lo coinvolgeva in una qualsivoglia iniziativa. Titubò. Era stato escluso da tante cose negli ultimi anni, anzi, era stato escluso dalla vita stessa. Tornare a far parte di qualcosa, anche se piccola, anche se per poco…
«Sono anni che non gioco, temo che non sarei un bello spettacolo» rispose.
«Siamo qui solo per divertirci» l’uomo allargò le braccia.
Alla sua età, disputare di nuovo una partita, rimettersi in gioco…
Le gambe furono più veloci dei pensieri e si ritrovò a dirigersi verso il campo.
«Sei con noi quattro» gli disse il ragazzo dalla maglia rossa indicandogli gli altri tre compagni di squadra.
La partita cominciò. Era la sua squadra in attacco. Seguì i movimenti dei compagni e della difesa. Il suo marcatore non gli metteva pressione; con uno scatto lo superò, portandosi libero nell’angolo. Il ragazzo dalla maglia rossa lo servì e senza pensarci tirò.
La palla si fermò sul primo ferro.
“Cominciamo bene” pensò mentre tornava in difesa.

Sudato come non accadeva da anni, ritornò alla panchina dove aveva lasciato la sua roba. Non abituato più ai movimenti di gioco, sulla pianta dei piedi gli erano venute le vesciche, aveva il fiato corto, l’indomani gli avrebbero fatto male tutti i muscoli, ma non si sentiva così bene da un pezzo. Rincorrere gli avversari, andare a rimbalzo, fintare, passare la palla… dopo i primi minuti d’incertezze ed errori, era entrato in sintonia con il ritmo partita, e anche se le percentuali al tiro non erano come quelle di quando giocava, aveva dato un contributo utile alla squadra per la vittoria.
Ma non era stata la vittoria a farlo stare così: era stato il giocare a farlo risentire vivo, a dissipargli la cappa plumbea che poggiava sulla sua testa. Si sentiva come quando era ragazzo, senza pensieri, felice di quello che faceva.
“Almeno per un giorno non mi sentirò da schifo.” E di quei tempi era già tanto. Per quella sera i cupi pensieri lo avrebbero lasciato stare. Quella sera avrebbe reso grazie dell’aver avuto un’opportunità per sentirsi, anche solo per poco tempo, come gli altri. Una piccola cosa, ma erano proprio le piccole cose che salvavano dallo sprofondare nell’oscurità più completa; l’indomani avrebbe ripreso la solita routine fatta di rospi da ingoiare, ma per quel giorno voleva godersi quelle sensazioni.
Levò gli occhi al cielo. “Sì, un solo giorno può bastare per…”
«Tu sei Andrea Brasi, vero?»
Uno dei due uomini con cui aveva giocato contro gli si era avvicinato.
«Sì» rispose cauto.
«Lo sapevo!» esclamò divertito l’altro. «Quel modo di fintare e smarcarsi per tirare da tre… non me lo scorderò mai.»
Fissò l’uomo perplesso.
«Carlo Marotti» gli porse la mano. «Ci siamo incontrati più volte negli anni ’90 nei tornei regionali. Ci sommergevi con le tue bombe.»
«Quanto tempo è passato…» disse stringendogli la mano. Ora che gli aveva detto chi era, cominciò a ricordarsi di lui: un playmaker longilineo e scattante, niente a che vedere con quell’uomo dalla barba e appesantito da diversi chili di troppo.
«Davvero.» Carlo diede una pacca sulla spalla al ragazzo che era con lui. «Tra famiglia e trasferte per lavoro si lasciano perdere tante cose che si facevano da giovani, anche se ogni tanto si riesce a ritagliarsi qualche spazio per rivivere i bei tempi. Ho sentito che hai smesso di giocare quando hai iniziato l’università: in che ramo lavori?»
Puntuale come la morte, ecco la domanda che voleva sempre evitare. Sollevò la maglietta per asciugare il sudore del volto. «Ingegneria. Ma ho perso il lavoro due anni fa.»
«Oh, mi spiace. In cosa ti eri specializzato?»
«Robotica.»
Carlo alzò sorpreso le sopracciglia. «Dove lavoro, stiamo cercando uno con le tue competenze. Ti posso far avere un colloquio, anche per domani.»
«Sicuro?» chiese incredulo.
«Fammi fare una telefonata.»
Carlo si allontanò di qualche metro parlando allo smartphone.
Rimasto solo col ragazzo, restò in silenzio, sorridendogli imbarazzato e poi voltandosi a guardare le cime degli alberi.
«Bene» disse Carlo ritornando.
«C’è il colloquio?»
«Meglio: il mio capo ti vuole prendere in prova per un mese. Aveva già sentito parlare di te ed è rimasto sorpreso di saperti a spasso. Non vuole che qualcuno ti soffi di nuovo com’è successo l’altra volta.»
Rimase senza parole. Tutto così improvviso, tutto così positivo… era totalmente spiazzato…
«Per te va bene?»
«Certo» si affrettò a rispondere.
«Zia, zia!»
Videro sfrecciare il ragazzo verso l’ingresso del parco, correndo incontro a una donna dai lunghi capelli neri e dal fisico slanciato e formoso.
«Finalmente Lara si è degnata di arrivare.»
Andrea rimase di stucco: erano passati degli anni, ma non ci si dimenticava di una come lei. “Suo figlio l’ha chiamata zia, questo significa che…” «Tua sorella?»
L’altro assentì. «Oggi era libera, quindi le ho chiesto se voleva venire a vederci giocare.»
Aveva senso: l’aveva vista diverse volte ad assistere alle partite. «Il basket è sempre il basket.»
Carlo scosse il capo. «Non gliene potrebbe fregare di meno: è venuta qua per Matteo. Loro due sono molto legati; spesso lei l’aiuta. Lo capisce molto meglio di me. L’ho invitata sperando che passando un pomeriggio insieme si distraesse un poco: non sta attraversando un bel periodo.»
“Dev’essere una cosa comune di questi tempi.” «Una cosa non capisco: se non gli importa nulla del basket, com’è che la vedevo sempre alle vostre partite?»
Carlo sorrise. «Non veniva a tutti i nostri incontri, solo a quelli in cui le nostre due squadre s’incontravano» disse ammiccante.
“Veniva solo ai nostri incontri…” Per un po’ l’informazione non gli disse niente. Ma Carlo continuava a sorridere in modo strano e la cosa lo lasciava perplesso. “Ma che ha da…” Poi un pensiero prese a farsi largo nella sua mente, talmente inverosimile da lasciarlo senza fiato. “Vuoi vedere che… ma che coglione…” Cercò di non far trapelare quello che stava pensando, cambiando discorso. «Che le è successo? Niente di grave, spero.»
«Si sta riprendendo dal divorzio.»
«Anche lei» gli partì senza rendersene conto.
«Divorziato pure tu? Ma pensa un po’…»
Non seppe come rispondere, ma fortunatamente l’arrivo degli altri due lo tolse l’imbarazzo di farlo.
Carlo mise una mano sulla spalla del figlio. «Ci siamo riposati abbastanza: torniamo a fare due tiri.»
La sorella osservò i due allontanarsi, poi si volse verso di lui, sorridendogli. «Ciao, Andrea. Vieni spesso qui a giocare?»
Fu colpito nel sentirsi chiamare per nome. «In realtà, questa è la prima partita che faccio dopo tanti anni.»
«Hai ancora la mano calda? Mi ricordo che eri bravo.»
«Diciamo che non mi sono vergognato di giocare ancora una volta.»
Lei rise di gusto. «Che coincidenza giocare di nuovo con mio fratello. Spero tu non l’abbia asfaltato come le altre volte.»
«Si è difeso bene.»
«Non è che lo hai lasciato vincere, in memoria dei vecchi tempi?»
«Non faccio queste cose, Lara.»
Lei fu piacevolmente colpita nel sentirsi chiamare per nome.
“Vuoi davvero vedere che…”
«Scommetto che avete parlato di quando giocavate.»
«In parte.»
«E l’altra parte?»
In quel momento sentì qualcosa sciogliersi in lui e non si sentì legato da tutti i pensieri negativi avuti: era come se fossero scivolati via col sudore.
“La vita è un rimbalzo: occorre essere al posto giusto nel momento giusto.” Fu il pensiero fulmineo che gli attraversò il cervello. «Che avevi una cotta per me.» Vide la sua espressione mutare, il respiro che le si bloccava. Era un azzardo, eppure incoscientemente sentiva che… «Ti va di uscire domani sera?»
Dopo un attimo di titubanza, Lara rispose. «Ok.»
Anche se la vedeva leggermente sconvolta, il guizzo che aveva colto nei suoi occhi lo rassicurò. «Raggiungiamo gli altri?» fece per mascherare l’euforia che si stava impadronendo di lui.
Stavano per avviarsi quando si ricordò del libro messo sotto la panchina. Lo prese e lo tenne tra le mani, fissando la copertina.
“Trovare se stesso… è così che avviene? Senza cercare, senza pensarci?” Non c’era spiegazione per quello che stava avvenendo, ma non aveva importanza: importava che stesse accadendo.
Tutta la vergogna, l’inadeguatezza provate solo un’ora prima, era sparite. Era tornato a essere una persona. Era tornato alla vita. Guardò il campo da gioco e poi il romanzo. “E pensare che tutto sia nato da un libro e da una partita di basket.” Aveva una gran voglia di ridere, ma si limitò a sorridere mentre raggiungeva Lara, sentendo che ora le cose sarebbero andate per il meglio.
«Che cos’è quel sorriso compiaciuto?» gli chiese Lara maliziosamente incuriosita.
Lanciò un’occhiata al tomo che aveva in mano. «A tuo nipote piace leggere?»
«Beh, sì» rispose spiazzata.
«Allora questo libro gli piacerà.» Continuò a sorridere del sorriso di chi la sapeva lunga e non voleva rivelare un segreto che solo lui conosceva. “Sì, la vita alle volte è davvero un rimbalzo.”

La vita è un rimbalzo

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Tac. Il sassolino colpì il bordo di plastica, finendo poi nell’erba.
L’uomo sospirò. Ancora una volta non era riuscito a far centro nel bidone della spazzatura.
“Un tempo ci sarei riuscito al primo colpo.”
«Cos’è che dicevi? Io non sono il più intelligente, non sono il più bravo, ma sono il migliore in quello che faccio. Avevi ragione: sei il migliore nel fare schifo.»
Le parole dell’ex-moglie tornarono ad aggredirlo con forza. Il brutto era che non aveva torto. Ma sentirselo sbattere in faccia così faceva un male cane.
«È stata una fortuna che non abbiamo avuto figli, si sarebbero vergognati con un padre come te.»
Ferite che si sommavano ad altre ferite, fino a quando non si capiva dove finiva una e cominciava l’altra, e tutto era solo un dolore continuo che incalzava senza posa.
Fu tentato di sputare, come se questo servisse ad alleviare l’amarezza che provava.
Il matrimonio fallito, il licenziamento dal lavoro.
Erano state delle belle botte, però tanti ci erano passati e le avevano superate.
Ma non lui. Qualcosa gli si era rotto dentro e non era più riuscito a risollevarsi.
Serrò le labbra. Da un anno la sua vita si divideva tra il parchetto del quartiere e l’appartamento. Se ne stava ore seduto sempre sulla panchina più isolata, cercando di non pensare a niente, andandosene quando arrivava gente, come se sul viso si potesse vedere la vergogna che provava per la sua condizione. Rimaneva solo quando qualcuno veniva a fare due tiri al campo di basket; il rumore della palla che rimbalzava sul cemento o che sbatteva sul tabellone lo rasserenava, facendolo tornare ai tempi in cui non aveva pensieri e la vita non gli aveva riservato dei piatti amari da ingoiare.
Eppure ci aveva provato a rimettersi in pista. Eccome se ci aveva provato.
Il primo anno dopo aver perso il lavoro, non aveva fatto altro che cercarne un altro. Ricerche su internet, frequentazione di corsi per aggiornarsi, iscrizione a società interinali; aveva provato pure con i centri per l’impiego. Sempre la stessa storia. «Le faremo sapere.» Aveva imparato a odiare quella frase, perché ogni volta che l’ex-moglie gli chiedeva com’era andata e le dava quella risposta, vedeva nei suoi occhi crescere l’insofferenza, sentiva le sue parole farsi più pungenti.
«Che futuro c’è per noi se non trovi un altro lavoro? Come pensi si possa mantenere una famiglia?» gli ripeteva in continuazione. «Sono stanca di vergognarmi di te con le mie amiche, di non poter andare in ferie perché ci mancano i soldi.»
Aveva ragione. Senza soldi non si poteva fare niente, non si poteva andare da nessuna parte; anche i legami parevano dipendere da essi. Quei sentimenti che credeva così saldi si erano spezzati alla prima difficoltà, rivelando come quello che aveva costruito non era stato che una menzogna.
Anche dopo che l’ex moglie se n’era andata, aveva provato a negare l’evidenza, a dimostrare che la realtà non era quella che lei gli aveva sbattuto in faccia, ma poi si era arreso: era un fallito. E così era giunto il parchetto.
Posò lo sguardo sul libro accanto a sé. Strade nascoste, recitava il titolo; l’aveva trovato in una bancarella dell’usato. Gli uomini hanno dei limiti: è questa la benedizione e la maledizione della loro natura. Colpito dalla quarta di copertina, l’aveva comprato senza neanche sfogliarlo.
Scosse il capo. Chissà cosa aveva pensato di trovare in quel libro; magari una rivelazione che desse soluzione ai suoi problemi. Invece, quando aveva iniziato a leggerlo, si era trovato davanti un fantasy. Un fantasy con oltretutto una poesia; a quale autore veniva in mente di fare una cosa del genere?

Lascia ogni preoccupazione e fardello sulla strada percorsa
A nulla giovano allo spirito
Lascia che sia libero e leggero di andare a cercare se stesso
E una volta trovatolo, vivrai in pienezza.

Qui non troverai nemici da combattere
Dimorano solo nel tuo cuore
Sei tu l’unico nemico da sconfiggere
Armato inutilmente di logori atteggiamenti e abitudini.

Cammina leggero, privo di pesi.

Cercare se stesso… “Il mio io s’è perso e non saprei dove andare a trovarlo.”
Sei tu il nemico… Quindi era tutta colpa sua della condizione in cui si trovava…
Il suono di qualcuno che palleggiava lo distolse dalle riflessioni: dei ragazzi venuti a giocare.
Fece per tornare ai suoi pensieri, ma il rimbalzo di un secondo pallone lo fermò: sul campo da basket erano arrivate altre quattro persone, due uomini della sua età e due ragazzini. Probabilmente padri e figli.
Il nuovo gruppo si avvicinò all’altro, mettendosi a parlare.
“Organizzeranno una partita, ma gli manca un giocatore…”
L’uomo più robusto si voltò verso di lui. «Tu giochi?»
Da tempo nessuno gli chiedeva una cosa del genere. Anzi, da un pezzo nessuno lo coinvolgeva in una qualsivoglia iniziativa. Titubò. Era stato escluso da tante cose negli ultimi anni, anzi, era stato escluso dalla vita stessa. Tornare a far parte di qualcosa, anche se piccola, anche se per poco…
«Sono anni che non gioco, temo che non sarei un bello spettacolo» rispose.
«Siamo qui solo per divertirci» l’uomo allargò le braccia.
Alla sua età, disputare di nuovo una partita, rimettersi in gioco…
Le gambe furono più veloci dei pensieri e si ritrovò a dirigersi verso il campo.
«Sei con noi quattro» gli disse il ragazzo dalla maglia rossa indicandogli gli altri tre compagni di squadra.
La partita cominciò. Era la sua squadra in attacco. Seguì i movimenti dei compagni e della difesa. Il suo marcatore non gli metteva pressione; con uno scatto lo superò, portandosi libero nell’angolo. Il ragazzo dalla maglia rossa lo servì e senza pensarci tirò.
La palla si fermò sul primo ferro.
“Cominciamo bene” pensò mentre tornava in difesa.

Seduto in terrazza, si godeva la brezza della sera. Sulla pianta dei piedi gli erano venute le vesciche e l’indomani gli avrebbero fatto male tutti i muscoli, ma non si sentiva così bene da un pezzo. Rincorrere gli avversari, andare a rimbalzo, fintare, passare la palla… dopo i primi minuti di difficoltà, era entrato in sintonia con il ritmo partita, e anche se le percentuali al tiro non erano quelle di quando giocava, aveva dato un contributo alla squadra per la vittoria.
Ma non era stata la vittoria a farlo stare così: era stato il giocare che lo aveva fatto risentire vivo, che gli aveva fatto dissipare la cappa plumbea che poggiava sulla sua testa. Si era sentito leggero, senza pensieri ed era tornato come quando era ragazzo, felice di quello che faceva.
Di per sé solo quello sarebbe bastato per rendere grazie di quella giornata. Ma poi era successo qualcosa di così improvviso che stentava ancora a crederci. Eppure tutto quanto accaduto era stato reale.
Uno degli uomini con cui aveva giocato era stato suo avversario ai tempi della gioventù; parlando del più e del meno era saltato fuori che dove lavorava avevano bisogno di una persona proprio con la sua esperienza. Senza cercare, aveva ottenuto un mese di prova in quella ditta. Se ripensava a tutti i no che aveva ricevuto in quegli ultimi anni, senza il minimo spiraglio di trovare un buco dove lavorare…
Il pensiero che solitamente lo faceva angustiare, quella sera non lo sfiorava minimamente. Forse dipendeva anche dal fatto che in quel parco aveva incontrato la sorella dell’uomo, venuta a trovare suo nipote, scoprendo che da giovane aveva una cotta per lui; dalla scoperta ad avere un appuntamento con lei era stato un tutt’uno.
Solo poche ore prima avrebbe ritenuto impossibile che sarebbe ritornato ad avere una vita come tutti gli altri. Un lavoro, una donna… ma soprattutto ritrovare se stesso, non sentirsi più legato ai pensieri negativi che aveva avuto; tutta la vergogna e il senso d’inadeguatezza provati per anni erano spariti. Era tornato a essere una persona. Era tornato alla vita.
“E pensare che tutto è nato da un libro e da una partita di basket.” Sorrise. “È proprio vero che la vita è come un rimbalzo: occorre essere al posto giusto nel momento giusto.”