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Il parchetto

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Tac tac tac.
Il suono della stampella sul marciapiede aveva un che di rassicurante; per molti sarebbe stato il segno del decadimento fisico, ma per lui rappresentava il non dover più correre dietro a passioni e obblighi.
“Essere vecchi non è poi così male” pensò mentre svoltava l’angolo del quartiere.
“Nessuno si aspetta più niente da te. Niente pressioni, richieste. Si ha tutto il tempo che si vuole e lo si può gestire come meglio si crede.” Sorrise, avanzando con il suo passo lento e misurato.
“Nessuno fa caso alle eccentricità, perché tutti danno la colpa all’età e al fatto che ogni giorno che passa si porta via un pezzettino di testa. Si è liberi dai giudizi. Oppure non ci si dà importanza perché si è capito a cosa dare valore.” Scosse il capo divertito.
Aspettò che il semaforo divenisse verde, poi attraversò la strada, passando accanto alle villette a schiera, tutte dello stesso color mattone, tutte con gli stessi piccoli giardini curati. Nell’aria, l’odore di sugo e soffritto si mescolava al profumo dei gelsomini; da una finestra aperta giungeva la melodia di un tango argentino.
Imboccò una strada senza uscita che passava in mezzo a due blocchi di villette, percorrendola fino a raggiungere la staccionata. Aprì il basso cancelletto di legno, superò le altalene e gli scivoli, e si diresse alla panchina più lontana.
Con un sospiro di soddisfazione si sedette. Poggiò la stampella per terra e si lasciò andare contro lo schienale della panchina. Una tiepida brezza accarezzava le foglie degli alberi, creando giochi di luce con i raggi di sole che filtravano tra i rami. Una palla sgonfia faceva capolino dal cestino dei rifiuti.
Inspirò lentamente, osservando i pezzi mancanti della staccionata. Quand’era piccolo, non c’erano recinzioni, ma tutto era prato per decine e decine di metri: lui e i suoi amici venivano a giocarci a calcio tutti i pomeriggi dopo la scuola, usando gli alberi come pali per le porte. Un pallone e quel campo di periferia diveniva uno degli stadi più famosi d’Europa, mentre loro si trasformavano negli idoli che tanto osannavano.
“Boniperti s’invola sulla fascia, salta un uomo e s’accentra puntando dritto sul portiere…”
“Ma Valentino Mazzola lo anticipa e parte in contropiede…”
Scosse il capo sorridendo: facevano la radiocronaca delle proprie azioni mentre giocavano… ne avevano di fiato da vendere.
Le case oltre lo steccato scomparivano ogni volta che ricordava quei giorni e si rivedeva con i suoi amici correre in pantaloncini e maglietta, sudati e spensierati, con solo una gran voglia di giocare. Si mise a sogghignare ripensando alle imprecazioni che volavano quando il pallone finiva nel torrentello vicino e si ritrovavano a rincorrerlo lungo la riva mentre i flutti se lo portavano lontano, fino a quando non si fermava contro un sasso o un alberello caduto.
Spostò lo sguardo sui pochi alberi rimasti. Anche quello su cui aveva inciso le iniziali sue e della prima ragazza con cui usciva da adolescente era stato tagliato per far spazio all’ingrandimento del paese. Dove ora c’era l’ultima villetta, vedeva il se stesso più giovane che scambiava il primo bacio all’ombra della grande quercia, nel silenzio di un tramonto d’estate. Quello stesso albero aveva conosciuto la tristezza inconsolabile quando lei si era trasferita in un’altra città.
“Chissà se anche lei ripensa a quei momenti, alla dolcezza dei baci che ci siamo scambiati.” Sospirò. “Forse mi dovrei chiedere se è ancora viva: dei ragazzi e delle ragazze di allora non rimane più nessuno. C’è chi è morto, chi non si alza più da un letto…”
Volse il capo in direzione del cigolio di un’altalena. Quello era un luogo dove venivano ormai poche mamme con i loro bambini nelle carrozzine; sempre di corsa, sempre impegnate a guardare lo smartphone e mai disposte a scambiare una battuta se non con le altre mamme.
I ragazzi neppure ci venivano più, troppo impegnati a passare le loro ore dentro la rete. Niente più partite al pallone. Niente più avventure nel torrente a fantasticare di tesori smarriti o a costruire dighe per creare una loro piccola piscina; probabilmente ora non gli sarebbe nemmeno stato permesso di farlo per non deturpare l’ambiente, perché il corso d’acqua era troppo inquinato e si potevano contrarre malattie.
I tempi erano cambiati.
Le aspettative erano cambiate.
Tutto era cambiato. C’erano più regole da rispettare. Più obblighi da assolvere. Si sorrideva sempre meno, quando invece a lui e alla sua generazione bastava un niente per sorridere.
Eppure non si sentiva triste. Anche se i suoi amici se n’erano andati, anche se del luogo dei loro giochi e amori non rimaneva che un soffocato angolo di verde, non provava rimpianto per quello che era passato.
Una foglia si posò sulla panchina. La prese per il picciolo tra l’indice e il pollice e cominciò a farla girare su se stessa, prima in un verso, poi nell’altro.
Uno scrittore dalla fervida immaginazione avrebbe potuto dire che quel parchetto era la sua macchina del tempo, il mezzo per tornare in un passato dove era felice e così sfuggire a un presente che non gli piaceva. Qualcosa di simile alla tana del Bianconiglio di cui scriveva King, ma che funzionava solo nella sua testa. Un modo molto prosaico per dire che gli era andato in pappa il cervello e che come ogni vecchio viveva solo di ricordi.
No, per lui non era così. Anche se ormai era molto cambiato, quel luogo gli serviva per ricordare come si faceva a sognare, cosa si provava quando si vedeva il mondo come un posto pieno di opportunità e tutto era ancora possibile, proprio come quando si era giovani.
Si sistemò più comodamente sulla panchina e, alzando lo sguardo sulla collina che stava oltre il torrente, fantasticò di luoghi che doveva ancora visitare.