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Il mondo sta impazzendo

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Il mondo sta impazzendo: questo è un fatto incontestabile (anche se c’è chi vuol far credere diversamente). Ormai si sta vivendo in un clima esasperato, un clima dove dominano la violenza, la prevaricazione, la paura. Ormai non si è sicuri da nessuna parte, né sulla strada, né nelle piazze, né nei centri commerciali e neppure in casa propria. I politici non fanno che tuonare e ripetere che i paesi, le popolazioni, non si faranno vincere dalla paura; ma quanto più si ripete una cosa, quanto più è vero il contrario: la gente è dominata dalla paura e la porta a chiudersi, a non fidarsi più degli altri. Senza contare la violenza: sì, perché c’è molta violenza nelle persone, anche in quelle che non la manifestano. La violenza non è solo un atto fisico, ma è anche verbale e mentale e si attua tutte le volte che si vuole imporre qualcosa a qualcuno.
Ma non sono gli unici elementi preoccupanti: la gente ormai è esasperata, oltre che piena di ossessioni, e questo porta degli squilibri che conducono a estremismi e intolleranza. In questa situazione non devono sorprendere atteggiamenti razzisti che ricordano tanto quelle dei nazisti verso gli ebrei e non solo: vedere il caso dell’hotel che obbliga gli ebrei a fare la doccia prima di usare la piscina, quando dovrebbe essere invece una norma igienica che dovrebbe essere applicata a chiunque (chi ha fatto nuoto o va in piscina sa che è una norma da seguire sempre e vale per tutti), e di usare il frigorifero solo in determinati orari; oppure quella di esclusione da concorsi canori perché non si è “veri” italiani o dal fare certi lavori perché di colore. Le persecuzioni naziste, le lotte delle persone di colore per avere gli stessi diritti dei “bianchi” come avvenuto in America, non sono tanto lontane, eppure ci si è dimenticati di quegli orrori, si sono dimenticate le lezioni che dovrebbero essere state apprese dagli errori commessi. Invece non lo si è fatto e la storia si sta ripentendo.
Certo, a creare questo clima di conflitto, di tensione, di odio e intolleranza, i politici e i governanti hanno avuto un ruolo molto importante: Trump, Putin, Kim Jong-un (consiglio la lettura di questo articolo di Bruno Bacelli per riflettere un poco) e nel suo piccolo anche l’Italia con tutta la sua classe politica (possono cambiare nome e fazione, ma tutti agiscono alla stessa maniera, alzando sempre i toni, in modo sprezzante, arrogante e offensivo). Sarebbe però limitante pensare che sia solo colpa loro, perché è vero che hanno grande influenza dato il ruolo e la visibilità che hanno, ma se la gente sapesse pensare con la propria testa, queste persone sarebbero nulla, non avrebbero alcun potere e non potrebbero fare niente. Purtroppo le persone si lasciano condizionare e si adeguano a quello che va per la maggiore; in questo caso a un clima di violenza, dove le azioni e le reazioni estremiste e folli sono all’ordine del giorno. Non si guardi solo agli attentatori, a quelli che fanno saltare in aria gli edifici, a quelli che investono con camion e furgoni le folle: si guardi a quelle che dovrebbero essere persone normali (ma che evidentemente tanto normali non sono) che uccidono per un parcheggio, un commento, una sigaretta, per gelosia, per soldi o anche senza un motivo. La vita non ha più valore: uccidere sta diventando come bere un bicchiere d’acqua.
Come si è arrivati a questo punto?
I fattori sono tanti.
Il vivere sempre di corsa. L’essere proiettati verso elementi che allontano da se stessi: il dover far carriera, ottenere una posizione sociale sempre migliore. Il far girare tutto attorno ai soldi, come se fosse l’unica cosa che conta. Il consumismo. L’adeguarsi ai modelli proposti dai media e dai social. L’apparire a tutti i costi. Avere sempre più atteggiamenti stupidi e superficiali. Adeguarsi alle mode. Il bisogno spasmodico di attenzione e visibilità (basti pensare ai social e ai selfie). L’uso di droghe. L’uso eccessivo di alcool. Tutto ciò che porta dipendenza (il gioco, il dover essere sempre connessi alla rete). Vivere in ambienti malati e ossessivi; sì, perché ad andare con lo zoppo s’impara a zoppicare e a stare con i malati ci si ammala, alla lunga: purtroppo le patologie mentali sono sempre più in aumento.
Questi sono solo alcuni degli elementi che hanno portato squilibrio nell’individuo. Il brutto è che la società, il sistema, oltre a creare tutto ciò, ha fatto credere che fosse una cosa normale, quando di normale non c’è nulla. È normale un sistema che martella le persone con la pubblicità a giocare (vedere i tanti giochi online pubblicizzati in tv), creando dipendenza, per poi creare strutture per disintossicarsi dal gioco? È normale un sistema che non fa che spingere in maniera insistente perché la gente beva alcolici e poi crei strutture per disintossicarsi dall’alcool? Lo stesso vale per il fumo. È vero che avvertono che il gioco può causare dipendenza patologica, che il fumo nuoce alla salute, che bisogna bere con moderazione, ma sono ammonimenti fatti per mettere a tacere chi protesta contro di essi, un modo di placare la coscienza, per salvare la faccia, per far sembrare di avere una morale ed essere interessati alle persone, ma a cui non si crede per niente, perché l’unica cosa che conta è fare soldi, mantenere in moto la macchina dell’economia.
Dire che è tutta colpa dei soldi sarebbe limitante (le cause sono tante e ce ne sono altre che non sono state elencate) ma siamo nell’Era dell’Economia e si è sviluppata purtroppo nelle persone la mentalità che tutto possa essere comprato, tutto possa essere ottenuto con il denaro; ma ci sono cose che non possono essere acquisite o recuperate se sono andate perdute. La sanità mentale è una di queste cose e sta divenendo elemento scarseggiante. Il mondo sta impazzendo, ma non è impazzito ancora del tutto: si è ancora in tempo a fermarsi e a salvarlo. E così facendo salvare anche se stessi, perché, se non lo si è capito, se non lo si fa ci si rimetterà tutti.

Desiderio

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Desiderio è il racconto con cui ho partecipato alla terza tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. Come le precedenti tappa, il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; Desiderio è la continuazione di Mostri e mostra il punto di vista di un personaggio qui incontrato.

Camminava in mezzo ai campi, assorto in chissà quali pensieri. Non fece caso al piccolo orso che lo seguiva, né alla biscia che lo osservava avvolta a un ramo. Fu il pinguino, però, a riportarlo alla realtà.
“Sanno che nel mondo reale non farò passi falsi, perciò cercano d’entrarmi nella mente mentre dormo, utilizzando il Mondo dei Sogni.” Il vecchio continuò a camminare disinvolto. “Astuto tentare di carpirmi informazioni ritenendo che l’inconscio possa tradirmi; ma io non sono sprovveduto come quella strega. Sprovveduta, ma è stata utile: le sue azioni mi hanno permesso di raccogliere elementi interessanti.”
Si mise a fischiettare mentre lanciava rapide occhiate all’orso che si grattava la schiena contro un albero e al pinguino che zampettava su un lago ghiacciato spuntato in mezzo al campo; della biscia nessuna traccia. “Aspetteranno un pezzo prima che gli riveli qualcosa: non sono gli unici a sapersi muovere nel Mondo dei Sogni.”
Fece un profondo respiro e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, si risvegliò nel letto della camera di motel che aveva preso per quella notte. Accanto a lui la ragazza giaceva immobile. Osservò il suo seno nudo alla ricerca di movimento. “L’ho prosciugata del tutto: avrei dovuto controllarmi di più.” I suoi occhi si soffermarono sui capezzoli che poche ore prima aveva succhiato con avidità. “Peccato: ci sapeva fare.” Emise un sospiro osservando le lunghe gambe tornite e le natiche bianche e sode come uova di struzzo. “Una sciacquetta come tante, ma una sciacquetta di prima qualità.” Un ghigno comparve sul suo viso. “Se avesse avuto un po’ più di cervello, non sarebbe stato così facile circuirla. E invece…una battuta, un drink, un paio di banconote e portarla a letto è stato un gioco da ragazzi. Sicuramente riteneva di fare soldi facili con una sveltina da due minuti. “Cosa vuoi che combini ormai questo vecchio: gliela faccio annusare un po’, mi ci struscio addosso e bum! Già cotto: chissà da quant’è che non vede un po’ di pelo” avrà pensato. E invece…”
Sogghignò al ricordo della faccia di lei quando aveva visto di cosa era capace e di come la sua espressione era mutata da sbigottimento a piacere crescente. Sudava, gemeva, ansimava e, nonostante fosse ormai stremata, lo incitava a continuare. Una volta colmatosi della sua energia sessuale, si era staccato da lei; era convinto che si sarebbe ripresa, ma per il suo cuore e la sua mente lo sforzo doveva essere stato troppo.
Diede uno sguardo agli occhi fissi della ragazza. “Completamente bruciata. Ma in fondo non è colpa mia: è quello che voleva. Anche lei era una lussuriosa; anche lei era una schiava di questo vizio.” Si massaggiò il collo, compiaciuto. “Questa era la sua debolezza. Ma per me è diverso: la lussuria mi dà forza e più mi addentro in essa, più acquisisco potere. Presto ne avrò a sufficienza per raggiungere l’obiettivo.” Si alzò in piedi, dirigendosi verso l’armadio: tirò fuori la divisa militare, posando lo sguardo sulle medaglie affisse su di essa. Molti uomini ritenevano che fossero il mezzo grazie al quale rimorchiava facilmente le donne, ma per lui rappresentavano solo la menzogna che era diventata la sua vita. Il sorriso svanì dal suo volto.
L’avevano chiamato audace, anima indomita. L’unica cosa che aveva saputo fare era sopravvivere e non l’aveva neppure voluto: quel giorno avrebbe voluto morire come tutti gli altri, ma aveva avuto la sfortuna di non beccarsi neppure una pallottola e gli era mancato il coraggio di piantarsene una in testa. Tutti i suoi compagni erano un ammasso di carne sanguinolenta, falcidiati dalle mitragliatrici o fatti a pezzi dalle granate. Una giornata lunga un inferno, dove aveva creduto d’impazzire in mezzo a tutte quelle urla ed esplosioni. Quando era giunta la sera, solo in due erano ancora vivi sul campo tra nemici e alleati: lui e il suo migliore amico, privato delle gambe da una mina.
«Te la caverai. Tu vivrai» non faceva che dirgli tenendolo tra le braccia; aveva continuato a ripetere quelle parole fino all’alba, quando erano arrivati i rinforzi.
«Lascialo andare: è morto da ore!» non facevano che urlare mentre cercavano di staccarlo dall’amico.
Quel che successe dopo era qualcosa di frammentato e confuso. Ricordava che la propaganda militare non si era fatta sfuggire l’occasione di creare un eroe, stravolgendo e ingigantendo i fatti: su qualunque media, in qualsiasi occasione, non facevano che dire che lui, unico sopravvissuto del plotone, aveva continuato a combattere per ore, uccidendo i nemici rimasti e conquistando un importante punto strategico.
«Un eroe» sussurrò posando le dita sulle medaglie. Proprio lui, che in quello scontro non aveva sparato un solo colpo, rannicchiato per tutto il tempo in una buca a tremare. Si era fatto usare senza accorgersene, facendosi fotografare, rilasciando interviste dove ripeteva quello che gli era stato ordinato di dire.
Poi la guerra era finita e non era più servito; solo quando non c’era stato più nessuno che lo guidasse, si era reso conto di cosa era realmente successo. La verità lo spezzò. Il dolore non gli diede tregua. Né l’alcool né la droga riuscivano a placarlo; solo quando faceva sesso riusciva a sedarlo. Si buttò tra le braccia di decine di donne, lasciandosi andare alla lussuria più sfrenata per non ricordare, per dimenticarsi di se stesso. Fu allora, ormai legato indissolubilmente alla lussuria, quando ormai non poteva più tornare indietro, che Liluth, signore di quel vizio, si rivelò e gli mostrò una nuova realtà, un mondo nascosto, e gli spiegò come il vizio era potere, un potere che permetteva d’ottenere tutto quello che si voleva; gli insegnò come addentrarsi sempre più in esso e acquisire sempre più forza. Fu allora che gli disse che era prigioniero e che, se voleva esaudire quello che desiderava, doveva scoprire dove avevano confinato il suo spirito e raccogliere energia sessuale sufficiente a dargli la forza per sorgere di nuovo.
Lanciò un’occhiata al cadavere sul letto. “Ce ne saranno ancora tante come lei prima che acquisisca il potere necessario per liberare Liluth e far sì che entri in me e io diventi lui.”
Mentre s’infilava i pantaloni, ripensò alla strega. “Avrebbe potuto darmi una grande quantità d’energia: la lussuria scorreva potente in lei. Così potente da essere una Posseduta, come me. Avrei potuto cercare di farmela, ma si sarebbe accorta che c’era molto più del semplice godimento in ballo. No, non potevo rivelare come funzionava il potere che veniva da Liluth: sarebbe diventata troppo pericolosa.” Prese ad abbottonarsi la camicia. “Quella sciocca era convinta che fosse il sangue delle vittime a dare forza al Demone e che lui, per ringraziarla, gliene concedesse una parte. Non immaginava che il potere in lei cresceva tutte le volte che fotteva le ragazze che rapiva; avesse capito questo, ora sarebbe più forte di me. Ora lei sarebbe viva e io morto.” Si sistemò la cravatta. “Ma non l’ha fatto e sono io quello che continua a vivere. Sono io l’unico che rimane sul campo di battaglia.” Fece una smorfia. “Proprio come allora. Ma quando avrà liberato Liluth e avrò tutto il suo potere, le cose cambieranno.” Tirò fuori dalla tasca una vecchia foto. «Tu vivrai» disse all’immagine dell’amico che gli sorrideva seduto su un carro armato.
Mentre si allontanava dal motel, una voce nella sua mente non faceva che sussurrargli sempre le stesse cose. “Sarebbe stato meglio se ti fossi sparato in testa quel giorno: non hai fatto altro che portare sofferenza a tutti quelli che hai incontrato. Non sei che un mezzo che altri sfruttano, adesso come allora, e da ciò non ne è venuto, e non ne verrà, nulla di buono. L’unica cosa che hai ottenuto è perderti per sempre.” Serrò le labbra, ricacciando la voce nel pozzo più buio della sua anima.
Adesso era inutile avere rimpianti. Aveva scelto e di questa scelta avrebbe dovuto vivere. E pagarne le conseguenze.

Lepri

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Lepri

Mostri

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Mostri è il racconto con cui ho partecipato alla seconda tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. Come la precedente tappa, il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; Mostri è la continuazione di Il Rosso e il Nero e mostra il punto di vista di un personaggio qui incontrato.

C’era una volta una principessa che viveva in un castello incantato. Era bella, buona e gentile e tutti vivevano in pace e armonia. Poi la principessa impazzì e diede inizio al massacro.
Questo poteva essere l’inizio di una delle sue favole preferite da piccola; le erano sempre piaciute le storie cupe e macabre: avrebbe voluto farne parte. I lieti fine la irritavano, perché nella vita reale le cose non finivano mai bene; gli eroi li detestava, perché erano figure false, costruite per illudere i bambini e farli sottomettere alla morale degli adulti. Adorava stare dalla parte del mostro; forse perché s’identificava in lui. Forse perché già allora era consapevole d’essere come lui. Sì, un mostro, proprio come la etichettava la maggior parte della gente. Era chiamata anche in un altro modo: strega. Due termini differenti, ma entrambi pronunciati con lo stesso disprezzo, lo stesso timore, lo stesso odio. Ma non li vedeva come qualcosa di negativo, anzi, erano un vanto, perché far paura significava essere rispettati. Lo diceva sempre la sua maestra: meglio carnefici che vittime. E aveva ragione. Dannatamente ragione: a essere vittime si stava da schifo.
Se i fianchi e le gambe non le avessero fatto un male d’inferno, avrebbe trovato quasi divertente come alle volte la sorte esaudiva i desideri: era la protagonista di una delle storie che tanto apprezzava. Solo che le cose non erano andate come sognato. Certo, si trovava in un castello incantato, pieno di poteri, di essenze soprannaturali; il suo proprietario, anche se non era una principessa, era stato pazzo come lei e aveva compiuto massacri in quel luogo per una vita intera. Così tanti ed efferati che aveva stravolto la sua natura, impregnando la sua essenza di dolore, orrore, paura in maniera tale che, anche se non esisteva più nel Mondo Materiale, continuava a persistere nel Mondo Spirituale.
“Ero così sicura di me, così eccitata dalla ricompensa che il mio signore mi avrebbe elargito una volta liberato, che non mi sono accorta della trappola. Eppure non mi sono sbagliata: lui c’era, conosco bene la sua aura. Come hanno fatto quei due maledetti a incastrarmi?” la sua mente lavorava febbrilmente mentre correva.
«Oh, guarda Nero…pensa che siamo dei semplici umani» aveva detto il gatto prima di rivelare la sua vera natura.
“Avrei dovuto sospettare che come guardiani avrebbero messo degli spiriti potenti. Talmente potenti da celare la loro aura ai mei poteri.” Ora però era tardi per recriminare. “Devo trovare una breccia nella barriera per tornare nel Mondo Materiale: è l’unico modo che ho per sopravvivere.”
Un cancello si aprì all’improvviso vomitando nel corridoio un nugolo di topi con la schiena piena di uncini. Squittendo impazziti si appallottolarono su se stessi e si lanciarono su di lei in uno stridente sferragliare di metallo. Il potere scaturì dalle sue mani, mandando gli spiriti a spiaccicarsi sulle pareti. Barcollò, avvertendo un senso di vertigine. “Sono ore che non faccio che correre e combattere, forse giorni.”
Catene munite di coltelli si scagliarono su di lei dal soffitto. Levò un muro di vento a sua difesa. Superò i resti metallici, ignorando le macchie rossastre che si stavano allargando sulla camicia.
«La carne, la carne.» Alle sue spalle il brusio degli spiriti non cessava mai, mentre i corridoi si susseguivano sempre uguali davanti a lei. “Devo continuare a salire: prima o poi troverò l’uscita.” Si gettò a capofitto su una rampa di scale; sbucò in un’ampia sala con un massiccio portone sul fondo. “L’uscita!” Scagliò il proprio potere contro le armature che si stavano staccando dalle pareti. Tutto intorno a lei divenne un vorticare di lame e fiamme.
E poi fu fuori, correndo a perdifiato nel cortile spoglio; la colorazione rossastra degli ambienti del castello lasciò posto al buio trasparente dello spazio aperto. Lanciò un’occhiata alle sue spalle: il castello incombeva su di lei, le nere mura che luccicavano di sangue, le guglie dentate con appesi scheletri urlanti e sbatacchianti.
Avvertì uno strattone alle caviglie e si ritrovò distesa al suolo. Tentacoli pieni di spine salirono lungo i polpacci e le cosce, insinuandosi sotto la gonna; il pizzo delle mutande non oppose nessuna resistenza. Sentì la punta acuminata e dura dei tentacoli cominciare a infilarsi nelle sue fessure. Un’ondata di puro terrore la travolse: scagliò il potere tutt’intorno in maniera incontrollata. I tentacoli schizzarono lontano, ricadendo sul terreno in un groviglio contorto. Si allontanò dallo spirito, incespicando e rotolando più volte a terra mentre cercava di rimettersi in piedi. Un’ondata di calore si allargò lungo le gambe. “Cazzo, me la sono fatta addosso” pensò mentre gli occhi si velavano e le lacrime scorrevano sulle guance. “No, non sono come loro: io sono più forte, molto più forte.” Ma i brividi che scuotevano il suo corpo dicevano che era proprio come le ragazzine con le quali si trastullava. Le vedeva nude e terrorizzate legate sopra il tavolo, urlanti e imploranti mentre le violava in ogni dove con qualsiasi cosa le veniva in mente. Ricordava il suo sussurro mentre avvicinava le labbra alle loro orecchie. “Non devi aver paura di questo: le donne sono fatte per prendere dentro di sé qualcosa di lungo e duro. Devi cominciare ad aver paura quando ti sventrerò in onore del mio signore.” Si eccitava vedendo il loro panico aumentare fino a farle impazzire.
Si rimise in piedi e corse dentro la foresta; i tremiti e le lacrime la accompagnarono a lungo: ora sapeva cosa si provava a essere stuprate.
Gli alberi attorno a lei si muovevano anche se non spirava vento, protendendo rami simili a dita per ghermirla. Alle sue spalle sentiva i sibili e lo sferragliare degli inseguitori, oltre all’incessante «La carne, la carne.»
«Da questa parte!»
Si voltò di scatto verso la voce: a una cinquantina di metri sulla sua sinistra scorse una sagoma umana che si stagliava in mezzo a una breccia nella barriera. “Il vecchio schifoso!” sentì la speranza pervaderla. “Se sopravvivo, gli darò anche l’anima!”
Una massa informe di spiriti si riversò famelica sullo stretto passaggio. Lampi brillarono davanti all’apertura, mentre la sua luce spariva soverchiata dalla schiera.
«…la città…» riuscì a sentire in mezzo allo stridere degli spiriti. «…prendi la breccia che si trova…» L’implosione coprì ogni altra parola.
Senza voltarsi riprese a correre, incurante degli arbusti che la sferzavano. Uscì dalla foresta sotto un cupo cielo verde-azzurro; in lontananza le luci della città brillavano con ferocia. Puntò dritto verso di essa, ormai sostenuta solo dall’adrenalina e dalla volontà.
Raggiunse la periferia cercando freneticamente con lo sguardo la breccia salvifica, ma ovunque guardava non faceva che scorgere spiriti. Spiriti fatti di lacci e siringhe, spiriti fatti di lattine e cocci di vetro: tutti si voltavano a guardarla con bramosia. Corse lungo i marciapiedi, tenendosi lontana dai palazzi che avevano per portoni voragini senza fine. Scorse due baluginii davanti a sé: uno in mezzo alla strada e uno oltre la recinzione contorta di un parco marcescente.
Un ululato risuonò alle sue spalle. Con le ultime forze si lanciò sulla strada, verso la breccia più vicina. “Sono salva!” pensò mentre la varcava e andava incontro alla luce.

Il vecchio arrancava e sbuffava: la corsa per lasciare la foresta e raggiungere la città era stata un tormento. “Devo arrivare là prima di lei. Devo fare in modo che prenda la breccia giusta: ho bisogno di sapere cosa ha scoperto!” Maledisse l’auto che si era guastata. E maledisse l’anca sciancata che non gli dava pace, ma non poteva fermarsi, non poteva permettere che tutto andasse perduto perché non era riuscito ad avvisarla in tempo. “Ormai ci sono…” Due auto della polizia lo superarono proprio in quell’istante.
Le macchine si fermarono con i lampeggianti accesi lungo il bordo del marciapiede. Il vecchio guardò e scosse la testa: troppo tardi.

Tramonti

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Tramonti

Tramonti

Tramonti

Sotto controllo

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Stiamo vivendo un periodo che diventa sempre più brutto: per quanto politici e media vogliono far credere il contrario, le cose stanno peggiorando e continueranno a peggiorare. Rabbia, paura e aggressività sono i sentimenti dominanti; il vivere sempre di corsa, sempre in tensione, logora e porta a situazioni per niente piacevoli. A questo va aggiunto che tanti pensano e ritengono di poter dire e fare tutto quello che gli pare; questa non è libertà, questo è caos.
Il brutto del ragionare di questi tanti è che non prende in considerazione le conseguenze che ne conseguono: la visione di questa mentalità è molto ristretta, oltre che molto dannosa. I pensieri di questi tanti sono per lo più del tipo “ma cosa vuoi che sia”, “tanto cosa vuoi che succeda”, “tanto a me non capita nulla”, e invece di cose ne succedono e ci rimettono poi tutti, perché poi si finisce per essere tutti sotto controllo, continuamente monitorati.
Si pensi alla rete, un mezzo che potrebbe essere utile ma usato dai più per insultare e scaricare le proprie frustrazioni, per perseguitare gli altri, per fare danni: il risultato è che se ne vuole limitare l’uso, non solo andando a fermare queste cose, ma volendo poi anche bloccare la denuncia e la critica delle cose sbagliate come corruzione, inciuci politici; si vuole abolire il libero pensiero, dove solo il consenso per chi comanda è concesso.
telelaser, strumento di controllo usato per la sicurezza stradaleSi pensi alla sicurezza stradale, dove, a causa di tanti furbi e indisciplinati che si credono divinità perché guidano un’auto, c’è una stretta sui controlli: i limiti vengono abbassati, semafori photored, autovelox, speed check, velo ok spuntano come funghi. Questo non solo va a intaccare il portafoglio degli automobilisti (basta una minima distrazione e superare di un paio di km/h il limite dei 50 è roba da ridere), ma causa un forte stato di stress per chi guida, dato che deve tenere sempre tutto sotto controllo. Certo la stretta non è dovuta solo all’aumentare degli incidenti e dei morti sulla strada: i soldi delle multe fanno parte delle voci di bilancio e visti i tanti tagli che i comuni hanno subito, tali enti cercano in ogni modo di ottenere quanto perduto (come sempre, è una questione di soldi e non dovrebbe più sorprendere dato che siamo nell’Era dell’Economia).
Si pensi alle aggressioni, alle morti, agli atti terroristici che avvengono nei centri abitati, nei luoghi pubblici, e a come questo, in nome della sicurezza, porti a far aumentare il numero di telecamere che sorvegliano.
Si pensi ai furbi che invece d’essere al lavoro, sono da tutt’altra parte a divertirsi: con il loro comportamento la morsa dei controlli si è intensificata; basta pensare che in alcuni casi i lavoratori saranno controllati con microchip inseriti nei camici. Questo in parte è giusto perché non si può prendere soldi senza lavorare, ma a rimetterci sono le persone oneste e responsabili, che fanno il loro dovere e vengono trattate così alla stessa maniera dei disonesti. E questo non è per niente giusto.
Stiamo vivendo un brutto periodo, che diventa sempre più brutto. Non ci si stancherà di dire che George Orwell con 1984 è stato profetico: il Grande Fratello esiste e agisce sempre più con forza.
Le persone sono sempre più sotto controllo, la loro libertà sempre più limitata: la loro vita sta diventando proprietà di stati e multinazionali, che decidono tutto per loro, anche se devono vivere o morire. Fa pensare come certi stati si oppongono in tutti i modi possibili a chi chiede di essere liberato da una sofferenza che non potrà mai essere guarita, costringendo a vivere nel dolore e nella disperazione. Fa ancora più pensare come certi stati decidono che uno deve morire, impedendogli di continuare a vivere anche se c’è una possibilità farlo: vedere il caso dell’Inghilterra con il piccolo Charlie Gard.
Quello che sta succedendo dovrebbe far pensare, perché è molto allarmante e se non si fa qualcosa, se non ci si oppone, presto l’individuo non sarà più libero di fare nulla, nemmeno di pensare. Alla faccia di tante storie di fantascienza.

Il Rosso e il Nero

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Il Rosso e il Nero è il racconto con cui ho partecipato alla prima tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. In questa occasione il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; avendo tale libertà, ne ho approfittato per creare una storia legata a un’ambientazione che ho già mostrato in Strade Nascoste e L’Ultimo Demone.

La volpe fece appena due passi lungo il fosso. Magra, la coda abbassata, annusava il terreno. Alzò il muso e lo girò verso la casa. Il Rosso, in piedi sul muretto, la teneva sott’occhio. I loro sguardi si incrociarono. Dal campo, due gatti si avventarono contro di lei e la costrinsero a fuggire.
Il Rosso la osservò saltare oltre il fosso che lambiva il bosco e sparire in una macchia di rovi. I due gatti passeggiarono nervosamente lungo la riva alcuni minuti prima di fare dietrofront e sdraiarsi all’ombra del grande faggio che cresceva in mezzo al campo. Assicuratosi che non ci fossero altri movimenti nelle vicinanze, saltò giù dal muretto e si diresse verso la casa, evitando le pozzanghere del vialetto. Aprì la porta senza far rumore, beandosi della frescura che i grossi muri di pietra mantenevano all’interno della stanza.
«Abbiamo avuto visite» con l’indice della mano destra il Nero indicò l’angolo più lontano della stanza.
«Non ha avuto nemmeno il tempo di gridare» costatò il Rosso non avendo sentito il minimo suono provenire dalla casa.
«Credeva che dormissi: è stato il suo primo errore.»
«E il secondo?»
«Mi ha scambiato per un cane» fece una smorfia di disappunto. «Un cane! Come se solo i cani possono starsene sdraiati davanti al fuoco di un camino.»
«I topi sono furbi, ma non sanno cogliere le sfumature. Non come i gatti» i baffi del Rosso si allungarono mentre sorrideva compiaciuto. Poi emise un sospiro. «Non potevi buttarlo fuori una volta eliminato? Deve venire sicuramente da una fogna: senti che puzza.»
«Certo che potevo» ammise il Nero. «Ma significava rivelare che il loro infiltrato era stato scoperto; in questo modo possono credere che il loro piano sta funzionando.»
«Un’astuzia degna di un lupo» il Rosso si sedette sulla poltrona dirimpetto a quella del Nero. «Sospettano che sia qui: una di loro gironzolava attorno alla casa.»
«Che aspetto aveva questa volta?»
«Una volpe» disse con nonchalance il Rosso. «Come se non fossimo capaci di accorgerci di un travestimento così mal fatto. Ci sarebbe da sentirsi offesi per come ci stanno sottovalutando.»
«Forse vogliono che pensiamo questo» il Nero incrociò le mani davanti al petto. «Forse fa tutto parte dei loro piani. In ogni caso, non fa alcuna differenza.»
«Quando pensi che agiranno?»
«Questa notte, quando il loro potere sarà più forte. Disponi i tuoi intorno alla casa. La sorveglianza deve essere massima.»
Il Rosso fece un cenno d’assenso. «E adesso aspettiamo.»
«E adesso aspettiamo» confermò il Nero.

Scrutò con attenzione l’area sottostante. Quattro gatti passeggiavano sopra il muretto di sassi, uno per lato, lanciando continue occhiate a destra e a sinistra, muovendosi silenziosi; altri quattro se ne stavano nascosti negli anfratti più bui del limitare del bosco, completamente immobili, gli occhi socchiusi ma vigili, per non rivelare la loro presenza.
Si sporse un poco in avanti per avere una visuale migliore della casa, dove la sorveglianza era più stretta: c’erano otto gatti, due per ogni angolo.
Con movimenti furtivi scese dall’albero. Strisciò in mezzo all’erba, evitando foglie e rami secchi. Si fermò vicino al muretto, scrutando la sua sommità; aspettò che il gatto che vi stava camminando sopra la superasse e poi vi si arrampicò sopra, scivolando rapidamente dall’altra parte. S’acquattò vicino a un basso cespuglio, osservando i movimenti dei gatti dinanzi a lei; con cautela prese ad avanzare, appiattendosi il più possibile contro il terreno. S’immobilizzò di scatto quando una cicala prese a frinire a poca distanza da lei; quattro paia d’occhi brillarono nell’oscurità, scrutando con attenzione il giardino. I minuti trascorsero lenti come se fossero ore; respirava appena, timorosa che il minimo movimento potesse farla scoprire. I gatti tornarono a portare la loro attenzione sulla porta e sulle finestre.
Con circospezione riprese ad avanzare, raggiungendo la parete della casa che non aveva nessuna apertura; vi si arrampicò sopra usando il tubo della grondaia per celare la sua presenza. Raggiunto il tetto, controllò che lì non ci fossero gatti. Assicuratasi d’essere sola, raggiunse il comignolo del camino: non un filo di fumo saliva da esso. Con circospezione lo toccò, sentendo che la pietra ormai era fredda. Scivolò al suo interno, procedendo nel buio più completo per un paio di metri. Sbirciò oltre il bordo dell’architrave: nella stanza non c’era nessuno. Raggiunse il pavimento, spostandosi rasente al muro per arrivare alla porta in fondo alla stanza. Lanciò un ultimo sguardo dietro di sé: c’erano solo la credenza e le due vecchie poltrone. Strisciò sotto la porta, ritrovandosi in un ambiente completamente avvolto dalle tenebre.
“È senza dubbio qui: solo lui può possedere una simile aura.”
Abbandonò le sembianze di lucertola, riassumendo quelle umane. Un cenno della mano e fece comparire una piccola sfera luminosa; con disappunto prese a spazzare via la fuliggine dai capelli biondi.
«Quello dev’essere l’ultimo dei tuoi pensieri» disse una voce alle sue spalle.
Si voltò di scatto, trovandosi dinanzi un uomo dai capelli rossi e uno dai capelli neri. “Non ho percepito la loro presenza…ma com’è possibile…” un sorriso si allargò sul suo viso “Sono dei semplici umani.”
L’uomo dai capelli rossi ricambiò il sorriso. «Oh, guarda Nero…pensa che siamo dei semplici umani.»
Il sorriso sparì dal volto della donna.
Il Nero si staccò dalla parete. «Non è più tempo di giocare al gatto col topo, Rosso.»
L’altro sospirò. «Peccato: era divertente. Almeno per noi» sorrise sornione. «Molto meno per te, strega.»
L’aria nella stanza ondeggiò. Le pareti oscillarono alcuni istanti prima di allontanarsi e innalzarsi; cancelli comparvero in esse, affacciandosi su stanze piene di lame e catene. L’ambiente assunse una cupa colorazione rossastra.
La strega fece un passo indietro, guardandosi attorno allibita. «Ma cosa…»
«Vedi, secoli fa qui sorgeva un castello, un luogo di violenza e tortura. Ora di esso e del suo sadico proprietario non rimane più nulla, ma certe cose lasciano un segno indelebile nel Mondo Spirituale, dando vita a vere e proprie piaghe. O inferni, come dite voi umani» spiegò con calma il Rosso.
La strega volse lo sguardo di nuovo su di loro, solo che al posto dei due uomini c’erano un gatto rosso e un lupo nero. Sbiancò di colpo. «Tu sei uno dei figli dello Spirito del Grande Lupo» deglutì a fatica la strega. «E tu…»
«Io sono un gatto» disse sornione il Rosso. «E tanto basta.»
«Quello che stai cercando non è qui; non lo è mai stato» intervenne il Nero. «Come altre della tua specie sei caduta nella nostra trappola. Come succederà ancora, dato che non avrai possibilità d’avvertire le tue simili.»
I cancelli alle pareti si aprirono. Un tintinnio metallico prese ad aleggiare nel lungo corridoio. Mani uncinate afferrarono le sbarre. Coltelli raschiarono le pareti.
«Sai, quello che anelano di più gli Spiriti è la carne» disse il Rosso prima di varcare l’apertura che il Nero aveva creato nella barriera tra il Mondo Materiale e quello Spirituale.
«Anche questa è fatta» il Rosso si stiracchiò assumendo di nuovo sembianze umane quando furono tornati nella stanza. Poi seguì il Nero fuori dalla casa, raggiungendo il centro del cortile dietro di essa; si fermarono a un paio di metri dalla quercia che vi cresceva. Il Nero volse lo sguardo al cielo: la luna stava per sorgere, la sua luce l’unica capace di dare una possibilità di fuga a quanto rinchiuso nell’albero. La corteccia si contorse, mentre un volto distorto dall’odio premeva contro di essa per uscire. Per ore il Demone mugghiò furioso nei suoi tentativi di fuga, facendo scricchiolò sinistramente il legno; poi tutto tacque quando la luna sparì oltre il bosco.
La quercia aveva resistito ancora una volta. Ma il volto del Demone rimase scolpito sul suo tronco.
Il Rosso e il Nero si scambiarono una lunga occhiata silenziosa, perché non c’era bisogno di parole per esprimere quello che provavano.
Quell’albero faceva davvero paura.

Hiroshima 6 agosto 1945.

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“…nulla alimenta l’oblio più di una guerra, Daniel. La legge del silenzio prevalse e ci convincemmo che quanto avevamo visto, fatto o saputo non fosse che un incubo. Le guerre negano la memoria dissuadendoci dall’indagare sulle loro radici, finché non si è spenta la voce di chi può raccontarle. Allora ritornano, con un altro nome e un altro volto, a distruggere quel poco che avevano risparmiato.” (1)

Tutto questo non deve accadere e per questo occorre ricordare orrori come il 6 agosto 1945, quando su Hiroshima fu sganciata la prima bomba atomica. Ricordare e andare a scavare sulle ragioni di questa follia, perché non possa più ripetersi. Perché se è vero che tanti ritennero quest’atto necessario per far terminare il conflitto bellico, va ricordato che fu l’ultima grande follia di una guerra dove tutto fu folle.

Hiroshima dopo lo sgancio della bomba atomica

1. Carlos Ruiz Zafon. L’ombra del vento, pag.386. Oscar Mondadori 2006.

Reinor. Sottoterra. Parte 5

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Restò piacevolmente sorpreso quando li ritrovò raggruppati nell’attesa di un suo segnale.
“C’è ancora qualcosa che va per il verso giusto” costatò, senza però poter andare oltre questo pensiero.
Un bambino si accoccolò a terra, tenendosi la testa tra le mani e cominciando a piagnucolare. Subito la madre gli fu vicino, prendendolo tra le braccia e consolandolo.
«Mi fa male la testa» gemette il piccolo.
Altri si piegarono sulle ginocchia, riempiendo la caverna di lamenti.
“Un attacco mentale” intuì Reinor, prima d’essere investito da un’ondata di dolore. Una vampata bruciante s’irradiò dalla nuca, espandendosi con mostruosa efficienza al resto del capo. I margini del mondo si fecero annacquati e tremolanti, mentre la forza dell’attacco lo spingeva sempre più verso il terreno, facendolo vacillare a ogni passo. Ma più penetranti del dolore furono le grida di donne e bambini. Una furia a lungo celata lo travolse. “I bambini non devono vivere simili esperienze, non devono soffrire in questa maniera.” Mosse gli occhi alla ricerca delle creature.
Una cinquantina di metri sopra di loro, su un cornicione di pietra dove la volta si alzava, una dozzina di creature perpetrava l’attacco invisibile. Musi privi di mandibola osservavano inespressivi gli umani sofferenti.
Un arco incandescente sgretolò la roccia sotto le zampe d’insetto. Senza emettere un verso, gli esseri formica precipitarono al suolo, seppelliti sotto il peso delle pietre che li seguirono nella caduta.
Le grida si attenuarono, lasciando il posto a tremolanti singhiozzi. Le persone si guardarono spaurite, scuotendosi dall’intontimento quando la marea rossa sciamò dietro di loro.
Reinor si staccò dal gruppo colpendo senza posa.
La terra esplose in più punti, sollevando pietre e le creature che avevano la sfortuna di calpestarla. La formazione compatta che si era riversata nella grotta fu spazzata via.
Lo scontro, repentino com’era cominciato, terminò. Gli esseri formica restarono fermi, in attesa. Lo schieramento si divise in due: dalle retrovie emerse una figura che sovrastava le altre di almeno una testa. Il portamento, la corporatura più massiccia, il colore rossastro: tutto in lui sottolineava che non era come le altre creature. Occhi neri come un pozzo puntarono sull’Usufruitore.
“Un altro nemico da abbattere.” Le braccia di Reinor si protesero in avanti di scatto, lanciando strali di luce incandescente. L’essere barcollò leggermente, il fumo che si dissipava dai semplici graffi che avevano segnato il carapace rossastro, e poi prese ad avanzare con passi aggraziati, delicati.
Reinor attaccò di nuovo e con un’agilità impensabile la creatura evitò la sua raffica di dardi energetici, arrivandogli addosso in un batter d’occhio. Un arto scattò verso la gola, gli artigli che affondavano nella carne.
Gli occhi della creatura si dilatarono per la sorpresa quando l’uomo tremolò fino a scomparire, riapparendo a un metro di distanza. Un dolore straziante esplose all’altezza del petto, mentre pezzi di se stesso volavano in aria.
Gli artigli fendettero l’aria in un attacco veloce e potente: questa volta non c’erano illusioni a eludere il colpo. Un’altra artigliata s’abbatté sull’uomo, ma senza successo. Prevedendo che il colpo sarebbe stato evitato, la creatura si buttò in avanti prendendo in pieno l’uomo con il suo carapace e buttandolo a terra.
Un’esplosione di luce afferrò l’essere formica scagliandolo lontano. Protetto dallo schermo eretto nello stesso istante in cui aveva lanciato il contrattacco, Reinor prese ad avanzare.
La creatura era prona a poca distanza da lui come un cavallo cui era stata spezzata la spina dorsale. Negli occhi neri come il carbone c’era dolore e sofferenza, nei loro guizzi repentini la ricerca di una via di fuga e la muta richiesta di un soccorso.
La furia che si era impadronita di Reinor s’allentò, lasciando posto a un moto di compassione.
“Chi combatte è la causa della morte di un altro, ma non c’è vergogna nel provare pietà per la vita di un nemico che si spegne. Solo un morto può uccidere a sangue freddo e con la tranquillità nel cuore.” Vedendo la distruzione che aveva generato, non poté provare un senso di disgusto e d’ineluttabilità. “Alle volte si deve agire diversamente da ciò che si vuole. Come succede ai burattini.”
Con uno scatto impensabile per un ferito, l’essere formica si rialzò, ghermendogli la gola e sollevandolo da terra.
“È questa la risposta alla pietà?”
Un lampo saettò dalla mano protesa in avanti: un leggero sfrigolio, l’odore di carne bruciata e fu di nuovo libero.
Alla creatura restava solamente una delle due chele della bocca, l’altra asportata insieme a buona parte del lato destro del muso. Un occhio penzolava inerme sul bianco osso che faceva capolino tra il rossastro del carapace e il rosso cupo del sangue che scorreva copioso.
L’essere formica si lanciò in una carica forsennata. Reinor evitò con facilità il mulinello scomposto d’artigli, rilasciando dalle mani il Potere e mandando il nemico a ruzzolare lontano.
L’essere si rialzò barcollante, la mascella dilaniata trasformata in un ghigno di sfida. A un suo ordine mentale lo schieramento di creature si riversò sul campo dello scontro, pronto a travolgere l’Usufruitore.
I contendenti si fermarono all’improvviso in ascolto, attirati da un’interferenza che non poterono ignorare.
Il tipico zampettare delle creature prese a farsi sentire nuovamente. Reinor alzò lo sguardo e fu colto da un brivido: migliaia di esseri formica stavano scendendo da aperture del soffitto della grotta. Le pareti assunsero una colorazione rossastra, ricoperte fino a non lasciare un solo sprazzo di pietra spoglio. La legione si asserragliò attorno a loro in un anello impossibile da spezzare.
Nonostante la situazione apparisse disperata, Reinor ebbe la sensazione che gli eventi stessero prendendo una piega diversa da quella che appariva.
Le creature con le quali aveva lottato si erano raccolte in formazione serrata: nei loro occhi lesse timore. Non era l’atteggiamento che si aveva all’arrivo di rinforzi.
Ci fu un movimento tra le fila dei nuovi venuti: la nuova schiera si aprì, permettendo la comparsa di quattro figure uguali in tutto e per tutto a quella che aveva fronteggiato. Con incedere marziale si portarono davanti alla macera figura, allineandosi in una rigida postura.
“Capitano Wheidarnix” comunicò mentalmente uno degli esseri con striature nere che intarsiavano la fronte “secondo la legge del nostro popolo e la volontà della regina, tu e tutti quelli che ti hanno seguito dovete rientrare nei confini della nostra nazione, con esecuzione immediata dell’ordine. Sarai sottoposto a giudizio. Sei pronto ad accettarlo?”
Gli uomini e le donne alle spalle di Reinor stavano in un’attesa logorante, non potendo sapere quanto stava accadendo. Gli fece cenno di mantenere la calma.
“No” fu la risposta mentale data.
“Capitano Wheidarnix, comprendi la gravità della tua scelta? Stai infrangendo la legge e andando contro la volontà della regina.”
“Conosco la legge: non l’ho infranta, come non sono venuto meno alla volontà della regina; le mie azioni sono rivolte all’adempimento di quanto lei desidera. Non posso essere considerato un trasgressore. Quindi non posso essere punito.”
“Hai deciso dunque di non rispettare l’ordine?”
“Sì.”
“Quanto stai facendo è alto tradimento. Ritratta le tue parole finché sei in tempo.”
“Non lo farò. Se necessario, in questo luogo scorrerà il sangue del nostro popolo.”
Reinor percepì una forte tensione tra le file delle creature. Muti sussurri carichi di preoccupazione furono scambiati nel linguaggio telepatico.
“Riesci a prevedere le conseguenze del tuo atto? Accetta il giudizio emesso. Accetta la volontà della regina.”
“Vieni a dirmi di accettare la sua volontà, quando la sto già eseguendo?”
“Come puoi affermarlo?”
“La volontà della regina è creare un grande regno, dare lustro al nostro popolo. Siamo esseri evoluti, superiori a molte altre razze, come questi rozzi bipedi. È giusto che ci servano; reclutandoli non ho fatto niente che andasse contro la legge.”
“Non c’è differenza tra reclutare e schiavizzare secondo queste creature” pensò Reinor. “Probabilmente non conoscono neanche il concetto di schiavitù.”
“Non è il modo in cui lei vuole sia messa in atto” sentenziò il nuovo arrivato. “Tu e coloro che ti hanno seguito dovete consegnarvi.” Il tono non accettava repliche.
Il ribelle indietreggiò, portandosi nei pressi del suo contingente. I suoi soldati gli si strinsero attorno come una corazza.
Lo scontro ormai era inevitabile. “Il diversivo che ci serve per metterci in salvo.”
Un’intimazione più forte del ritmico calpestio immobilizzò tutti quanti.
“Fermatevi immediatamente!” ordinò una voce imperiosa che risuonò solamente nelle menti delle creature e di Reinor. Gli uomini continuarono a non sentire nulla, guardandosi attorno sempre più perplessi e impauriti.
Non permetterò che il sangue dei miei figli scorra per mano del proprio fratello.”
All’unisono tutte le creature s’inginocchiarono: un paio delle zampe anteriori si piegarono completamente, mentre quelle posteriori si flessero leggermente con l’acuminato pungiglione che faceva bella mostra di sé. Il tronco del corpo, costretto a seguire la postura della posa, era inclinato in avanti con il muso reclinato sul petto coriaceo.
“Miei fedeli capitani, avete adempiuto al vostro dovere. Ora ritiratevi, finché non avrò bisogno di nuovo di voi.”
“Come comandi, regina” risposero all’unisono le quattro figure allineate poco distante da Reinor.
“Quanto a te, capitano ribelle” continuò con durezza la voce “tornerai immediatamente, senza creare altri problemi. Perché è questa la mia volontà.”
“Mia regina, io ho sempre seguito la tua volontà…”
L’interruzione giunse immediata. “Non un’altra parola, capitano.” Nella voce si percepiva un’ira a stento celata. “Non riesci a capire gli effetti della tua accecata obbedienza? Non riesci a comprendere che la sopravvivenza del nostro popolo dipende dalla segretezza della nostra esistenza e da come sia ignorata dalle altre razze? Hai rischiato di far scoppiare una guerra con gli abitanti della superficie; una guerra che non possiamo vincere.”
“Mia regina, non sottovalutare il tuo popolo. Le abilità di questi esseri non sono pari…”
“Sono molti più di noi: questo è sufficiente per essere schiacciati. Inoltre, in questa razza esistono individui che non sono privi d’abilità come tu affermi. Ne hai incontrato uno ed è bastato a fermare uno dei nostri battaglioni.” Sottolineò l’ultima frase con forza. “Non rischierò una guerra che non porterà nulla di buono al popolo. Tu e coloro che ti hanno seguito tornerete alla città alveare. Seguirai gli altri capitani e che non debba più intervenire per far rispettare un mio ordine.” L’ultima frase fece presagire conseguenze pesanti per chi avesse trasgredito.
La stretta cerchia si aprì, lasciando un varco davanti al tunnel dal quale erano passati gli umani. I ribelli lasciarono il campo in formazione compatta e ordinata. Quando l’ultima fila scomparve nella tenebra della galleria, un numeroso distaccamento dei nuovi arrivati li seguì.
Al capitano Wheidarnix, rimasto solo, non rimase che incamminarsi a sua volta; ma prima di andarsene, lanciò un’ultima occhiata agli umani, soffermandosi per qualche istante su Reinor. Con zoppicante incedere, sparì nell’oscurità.
I restanti esseri formica si occuparono dei caduti, trascinandoli verso il luogo d’origine.
Presto nella grande caverna ci furono solo i fuggitivi umani e un gruppetto di retroguardia delle strane creature. Uno dei due comandanti rimasti comunicò con Reinor. “Andate creature della superficie, senza temere più nulla dal nostro popolo.”
Poi anche lui, con il resto del seguito, se ne andò.
La gente, muta fino ad allora, d’incanto riacquistò l’uso della parola. «Che è successo?» era la domanda che pioveva da tutte le parti.
«È finita.»
Chi erano quegli esseri? Cosa volevano? Come mai si sono intromessi?
Troppo domande cui rispondere e nessuna voglia di farlo.
Torneranno? Ci daranno di nuovo la caccia?
«Non vi daranno più fastidio.»
Come fai a esserne sicuro? Ci puoi assicurare che niente di questo si ripeterà? Come…
Affrettando il passo s’allontanò dalle tormentose domande. Presto raggiunsero la buca nella quale si era calato per cercarli.
Finalmente furono fuori, lasciandosi alle spalle la stantia aria del sottosuolo, accolti da una fresca brezza e uno scintillante cielo stellato. Nei campi cominciarono a sentirsi calorose pacche sulle spalle, sommesse preghiere di ringraziamento e qualche singhiozzo di commozione.
In disparte dal gruppo, Reinor guardò a oriente la tonalità più chiara del blu della notte, beandosi della brezza. Un rumore di passi lo informò che qualcuno si stava avvicinando.
«Non ho mai visto delle stelle così luminose» esordì Tgwaren quando gli fu appresso. «Non avrei creduto di apprezzare così tanto la bellezza della notte né di ritenerla così preziosa. L’ho sempre data per scontata; non ho mai pensato un giorno di rischiare di non vederla più» disse spaziando lo sguardo tutto intorno. «Reinor, ti siamo debitori, ti dobbiamo tutto. Non potremo mai ringraziarti abbastanza…qualsiasi cosa tu chieda, noi…»
Reinor gli appoggiò una mano sulla spalla. «Siamo stanchi e abbiamo bisogno di riposo. Affronteremo domani questa discussione.» Tagliò corto avviandosi verso il villaggio. «Consiglio anche a voi d’andare a dormire; sarete molto impegnati a dare spiegazioni.»

L’accampamento era avvolto nel sonno, i fuochi spenti da tempo. Cercando di limitare al minimo ogni rumore, Reinor salì sul carro e si sdraiò nel posto riservatogli per dormire, spiegando la coperta e avvolgendosi in essa. Nelle vicinanze sentì un corpo girarsi.
«Dove sei stato tutto questo tempo? Sono due giorni che non ti si vede.» Dal fondo del carro giunse la voce di mastro Cander.
«Ho fatto un’escursione nei dintorni» rispose semplicemente.
«Sei tornato in tempo. I lavori di riparazione sono terminati: si parte all’alba. Se avessi tardato, avresti dovuto trovarti un altro passaggio» terminò il mercante tornando a dormire.
All’ora prestabilita la carovana riprese il viaggio.
Reinor non s’accorse della partenza, immerso in un profondo sonno ristoratore.