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Zombi 3

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I mostri da sempre sono stati rappresentazioni, proiezioni delle paure dell’uomo, di quanto non riesce a comprendere o non vuole accettare.
Nei post precedenti si è mostrato che simbologia possiedono gli zombi. Stessa cosa è stata fatta con il vampiro (se si vuole approfondire questo è l’articolo.)
I mannari sono il non riuscire a controllare gli istinti, i lati atavici e bestiali dell’animo umano: una forza dirompente, esplosiva, distruttiva, che non riconosce nulla, nemmeno gli affetti più cari, capace solo di dare sfogo al flusso d’energia qual è. Un perdere se stessi in un vortice cieco e oscuro.
I demoni sono l’incarnazione dei vizi e delle ossessioni che gli uomini creano e dai quali si fanno possedere. Esempi di modi e stili di vita errati che portano la nascita di comportamenti discostanti di molto dall’essere umano e che pertanto vengono definiti demoniaci.
Questi sono solo alcuni semplici esempi, analisi superficiali d’argomenti molto più profondi.
Il punto sul quale ci si vuole soffermare in questo caso non sono le origini del male, ma l’orrore che nasce nel dover affrontare i mostri, un sentimento interiore che reagisce a eventi o manifestazioni fisiche. Certo, chiunque sarebbe terrorizzato di fronte alla ferocia di una bestia tutta artigli e zanne. Ma, anche se spaventoso, si sarebbe preparati.
L’orrore peggiore è quello a cui non si è pronti, quando non ci si aspetta di trovarlo. Soprattutto quando prende la forma dell’innocenza e della purezza.
Per questo nel 1973 quando uscì L’Esorcista ci fu tanto scalpore; un film che colpì la sensibilità delle persone non solo perché criticava un ambiente perbenistico chiuso e ripiegato su se stesso com’era la società del tempo (la causa di fobie e ossessioni), ma soprattutto perché il male si era incarnato in una ragazzina. Difficile accettare un bambino come mezzo sofferenza e terrore. Come riuscire a combattere contro una simile manifestazione di male?
Con una gran forza di volontà. Ma anche se ci si riesce, una parte dentro di sé va perduta.

Rapidamente imboccarono la via libera, correndo con quanto fiato avevano in corpo. Un contingente di creature sciamò da un giardino e con i due spadaccini impegnati con il grosso dei morti viventi, toccò a Lerida e Ghendor fronteggiare il nuovo attacco.
L’orda di bimbetti s’avvicinò con il passo incerto e lento che ormai conoscevano; lo sguardo perso nel vuoto e le labbra violacee, conservavano ancora il marchio dell’innocenza dipinto sul volto. Con le braccia protese in avanti, sembravano ricercare l’abbraccio della madre che non riuscivano a trovare e che mai più avrebbero incontrato. Un lieve sorriso era disegnato sulla faccia, un marchio stridente verso la condizione di morti cui la pace non era concessa.
Un lamento dolce uscì dalle bocche fredde.
Ghendor serrò la mascella, l’animo in subbuglio: era come se avesse dovuto colpire i ragazzi cui insegnava. Il coraggio che finora l’aveva sorretto venne meno.
Il cuore di Lerida mancò un colpo. Senza rendersene conto prese a indietreggiare, continuando a fissare la scena struggente e raccapricciante, la mente chiusa al sopportare altro orrore: vedeva soltanto bambini desiderosi d’affetto e calore umano, una ricerca d’un semplice gesto gentile per ritrovare quanto era stato portato via.
Sorretto da Ghendor, Reinor riuscì a restare in piedi. Sentì lo spirito rattrappirsi di fronte a una tale ingiustizia, resistendo all’impulso di provare pietà: quelli non erano più bambini, ciò che avevano rappresentato era cessato d’esistere quando erano diventati le cose senza vita che avevano davanti. Provò ad avvisare i compagni di non farsi condizionare dal loro aspetto, ma le parole non andarono oltre il pensiero.
Invano cercò di alzare il braccio per spazzare via il pericolo più grande, quello che infliggeva colpi che non potevano essere parati e che nessuna armatura poteva coprire.
Un bimbetto di tre anni goffo e impacciato, vestito a festa, s’avvicinò a Lerida con il volto grigio, le braccia protese come se stesse andando incontro alla mamma; ma nei suoi occhi non c’era alcun segno di riconoscimento, solo la pupilla vitrea e fissa.
Come ipnotizzata, la donna non fece niente per impedire all’infante di attaccarsi alla gamba, avvinghiandosi con una forza pari a quella di un adulto. Il piccolo avvicinò la bocca alla coscia come nell’atto d’attaccarsi alla mammella in cerca di nutrimento. Lerida allungò la mano per accarezzargli i capelli.
Un lampo nero le sfrecciò accanto. Risvegliata dal sogno a occhi aperti, vide la testa e il corpo del bambino afflosciarsi a terra.
Con spietata efficacia Periin s’avventò sul gruppo.
Fu sul punto di urlargli di fermarsi, di non far del male a quelle creature, ma la mano che la strinse e lo sguardo di Reinor la fermarono: per quanto potesse essere grande la pietà, non potevano permettere che li uccidesse.
Le miserevoli creature caddero come agnelli sotto le zanne del lupo, falcidiate con facilità estrema.
Periin sovrastò i corpi martoriati, simile alla belva che ha fatto scempio delle pecore.
Lerida chiuse gli occhi.