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La fine del mondo e il paese delle meraviglie

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La mente è capace di creare un’infinità di mondi, di far vivere all’interno della propria coscienza persone, creature mai viste o incontrate, ma che alle volte non sono altro che proiezioni inconsapevoli e similari degli individui che si sono incontrati nella realtà, riplasmandoli in modo che possa esserci quella comprensione che magari non è stato possibile avere dal vivo.
Questo viene ben mostrato da Haruki Murakami in La fine del mondo e il paese delle meraviglie: una storia avvincente che viene raccontata su due binari paralleli, dove le vicende narrate si svolgono su due dimensioni legate tra loro. In capitoli che si alternano in maniera regolare, Murakami presenta due ambientazioni differenti.
Una Tokyo tecnologica (descritta nei capitoli con il titolo Il paese delle meraviglie), dove due grandi gruppi si contendono dati e informazioni in una silenziosa guerra fatta di spionaggio e assassini, nelle cui fondamenta si estende un mondo sotterraneo buio e umido abitato da pericolose creature mostruose. Una Tokyo dove i rapporti umani sono ridotti al minimo e non si riescono a instaurare legami profondi, rendendo la vita insapore, senza significato, senza qualcosa per cui valga la pena viverla.
Una cittadina senza nome (descritta nei capitoli La fine del mondo), avvolta in un’atmosfera invernale, congeniale a una popolazione privata della propria ombra e delle proprie emozioni, che vive un’esistenza pacifica, senza scossoni: una quiete che non viene increspata da nulla, dove il tempo non ha significato perché tutto sembra un momento eterno, bloccato in una stasi perenne. Un mondo in apparenza perfetto dove non ci sono odi, divisioni, contrasti, ma vuoto perché ogni desiderio, ogni emozione è sparita: senza più un cuore, la gente vive tranquilla, immersa nell’atmosfera crepuscolare della città avvolta da mura impenetrabili, tenendosi lontana dal bosco e dal lago che vi sono vicini perché considerati luoghi pericolosi, capaci di minare la base della loro esistenza.
Attraverso il mirabile uso d’immagini che ben caratterizzano l’espressività della storia (la neve che indica freddezza dei sentimenti, le mura per indicare la chiusura alle insidie del mondo esterne, gli unicorni che incarnano i sogni, il bosco al cui interno ci sono uomini che in parte ritrovano se stessi), Murakami crea un racconto profondo e denso di significato, mostrando come la società sia un luogo disumano, dove l’individuo è abbandonato a se stesso, viene usato da potenti gruppi per perseguire i propri fini e quando non serve più, gettato via o eliminato. Senza contare l’osservazione che viene fatta alla scienza e al progresso, forze che per andare avanti non si curano di niente, sono solo alimentate dalla necessità di superare un confine dopo l’altro. Non c’è certo da stupirsi, di fronte a un modo di vivere così arido, che si possa fare la scelta di allontanarsi da tale sistema, di vivere diversamente, anche a costo di estraniarsi dalla realtà.
Benché sia stato scritto molti anni prima, La fine del mondo e il paese delle meraviglie può essere considerato una sorta di gemello di 1Q84: un gemello più tranquillo, ma allo stesso tempo più amaro, con meno speranza di quanto invece il romanzo successivo presenta. Una bella storia, con un retrogusto dolceamaro che non dà molte possibilità alla società in cui si vive, mostrando tutta la sua brutalità e insensibilità.