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Desiderio

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Desiderio è il racconto con cui ho partecipato alla terza tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. Come le precedenti tappa, il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; Desiderio è la continuazione di Mostri e mostra il punto di vista di un personaggio qui incontrato.

Camminava in mezzo ai campi, assorto in chissà quali pensieri. Non fece caso al piccolo orso che lo seguiva, né alla biscia che lo osservava avvolta a un ramo. Fu il pinguino, però, a riportarlo alla realtà.
“Sanno che nel mondo reale non farò passi falsi, perciò cercano d’entrarmi nella mente mentre dormo, utilizzando il Mondo dei Sogni.” Il vecchio continuò a camminare disinvolto. “Astuto tentare di carpirmi informazioni ritenendo che l’inconscio possa tradirmi; ma io non sono sprovveduto come quella strega. Sprovveduta, ma è stata utile: le sue azioni mi hanno permesso di raccogliere elementi interessanti.”
Si mise a fischiettare mentre lanciava rapide occhiate all’orso che si grattava la schiena contro un albero e al pinguino che zampettava su un lago ghiacciato spuntato in mezzo al campo; della biscia nessuna traccia. “Aspetteranno un pezzo prima che gli riveli qualcosa: non sono gli unici a sapersi muovere nel Mondo dei Sogni.”
Fece un profondo respiro e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, si risvegliò nel letto della camera di motel che aveva preso per quella notte. Accanto a lui la ragazza giaceva immobile. Osservò il suo seno nudo alla ricerca di movimento. “L’ho prosciugata del tutto: avrei dovuto controllarmi di più.” I suoi occhi si soffermarono sui capezzoli che poche ore prima aveva succhiato con avidità. “Peccato: ci sapeva fare.” Emise un sospiro osservando le lunghe gambe tornite e le natiche bianche e sode come uova di struzzo. “Una sciacquetta come tante, ma una sciacquetta di prima qualità.” Un ghigno comparve sul suo viso. “Se avesse avuto un po’ più di cervello, non sarebbe stato così facile circuirla. E invece…una battuta, un drink, un paio di banconote e portarla a letto è stato un gioco da ragazzi. Sicuramente riteneva di fare soldi facili con una sveltina da due minuti. “Cosa vuoi che combini ormai questo vecchio: gliela faccio annusare un po’, mi ci struscio addosso e bum! Già cotto: chissà da quant’è che non vede un po’ di pelo” avrà pensato. E invece…”
Sogghignò al ricordo della faccia di lei quando aveva visto di cosa era capace e di come la sua espressione era mutata da sbigottimento a piacere crescente. Sudava, gemeva, ansimava e, nonostante fosse ormai stremata, lo incitava a continuare. Una volta colmatosi della sua energia sessuale, si era staccato da lei; era convinto che si sarebbe ripresa, ma per il suo cuore e la sua mente lo sforzo doveva essere stato troppo.
Diede uno sguardo agli occhi fissi della ragazza. “Completamente bruciata. Ma in fondo non è colpa mia: è quello che voleva. Anche lei era una lussuriosa; anche lei era una schiava di questo vizio.” Si massaggiò il collo, compiaciuto. “Questa era la sua debolezza. Ma per me è diverso: la lussuria mi dà forza e più mi addentro in essa, più acquisisco potere. Presto ne avrò a sufficienza per raggiungere l’obiettivo.” Si alzò in piedi, dirigendosi verso l’armadio: tirò fuori la divisa militare, posando lo sguardo sulle medaglie affisse su di essa. Molti uomini ritenevano che fossero il mezzo grazie al quale rimorchiava facilmente le donne, ma per lui rappresentavano solo la menzogna che era diventata la sua vita. Il sorriso svanì dal suo volto.
L’avevano chiamato audace, anima indomita. L’unica cosa che aveva saputo fare era sopravvivere e non l’aveva neppure voluto: quel giorno avrebbe voluto morire come tutti gli altri, ma aveva avuto la sfortuna di non beccarsi neppure una pallottola e gli era mancato il coraggio di piantarsene una in testa. Tutti i suoi compagni erano un ammasso di carne sanguinolenta, falcidiati dalle mitragliatrici o fatti a pezzi dalle granate. Una giornata lunga un inferno, dove aveva creduto d’impazzire in mezzo a tutte quelle urla ed esplosioni. Quando era giunta la sera, solo in due erano ancora vivi sul campo tra nemici e alleati: lui e il suo migliore amico, privato delle gambe da una mina.
«Te la caverai. Tu vivrai» non faceva che dirgli tenendolo tra le braccia; aveva continuato a ripetere quelle parole fino all’alba, quando erano arrivati i rinforzi.
«Lascialo andare: è morto da ore!» non facevano che urlare mentre cercavano di staccarlo dall’amico.
Quel che successe dopo era qualcosa di frammentato e confuso. Ricordava che la propaganda militare non si era fatta sfuggire l’occasione di creare un eroe, stravolgendo e ingigantendo i fatti: su qualunque media, in qualsiasi occasione, non facevano che dire che lui, unico sopravvissuto del plotone, aveva continuato a combattere per ore, uccidendo i nemici rimasti e conquistando un importante punto strategico.
«Un eroe» sussurrò posando le dita sulle medaglie. Proprio lui, che in quello scontro non aveva sparato un solo colpo, rannicchiato per tutto il tempo in una buca a tremare. Si era fatto usare senza accorgersene, facendosi fotografare, rilasciando interviste dove ripeteva quello che gli era stato ordinato di dire.
Poi la guerra era finita e non era più servito; solo quando non c’era stato più nessuno che lo guidasse, si era reso conto di cosa era realmente successo. La verità lo spezzò. Il dolore non gli diede tregua. Né l’alcool né la droga riuscivano a placarlo; solo quando faceva sesso riusciva a sedarlo. Si buttò tra le braccia di decine di donne, lasciandosi andare alla lussuria più sfrenata per non ricordare, per dimenticarsi di se stesso. Fu allora, ormai legato indissolubilmente alla lussuria, quando ormai non poteva più tornare indietro, che Liluth, signore di quel vizio, si rivelò e gli mostrò una nuova realtà, un mondo nascosto, e gli spiegò come il vizio era potere, un potere che permetteva d’ottenere tutto quello che si voleva; gli insegnò come addentrarsi sempre più in esso e acquisire sempre più forza. Fu allora che gli disse che era prigioniero e che, se voleva esaudire quello che desiderava, doveva scoprire dove avevano confinato il suo spirito e raccogliere energia sessuale sufficiente a dargli la forza per sorgere di nuovo.
Lanciò un’occhiata al cadavere sul letto. “Ce ne saranno ancora tante come lei prima che acquisisca il potere necessario per liberare Liluth e far sì che entri in me e io diventi lui.”
Mentre s’infilava i pantaloni, ripensò alla strega. “Avrebbe potuto darmi una grande quantità d’energia: la lussuria scorreva potente in lei. Così potente da essere una Posseduta, come me. Avrei potuto cercare di farmela, ma si sarebbe accorta che c’era molto più del semplice godimento in ballo. No, non potevo rivelare come funzionava il potere che veniva da Liluth: sarebbe diventata troppo pericolosa.” Prese ad abbottonarsi la camicia. “Quella sciocca era convinta che fosse il sangue delle vittime a dare forza al Demone e che lui, per ringraziarla, gliene concedesse una parte. Non immaginava che il potere in lei cresceva tutte le volte che fotteva le ragazze che rapiva; avesse capito questo, ora sarebbe più forte di me. Ora lei sarebbe viva e io morto.” Si sistemò la cravatta. “Ma non l’ha fatto e sono io quello che continua a vivere. Sono io l’unico che rimane sul campo di battaglia.” Fece una smorfia. “Proprio come allora. Ma quando avrà liberato Liluth e avrò tutto il suo potere, le cose cambieranno.” Tirò fuori dalla tasca una vecchia foto. «Tu vivrai» disse all’immagine dell’amico che gli sorrideva seduto su un carro armato.
Mentre si allontanava dal motel, una voce nella sua mente non faceva che sussurrargli sempre le stesse cose. “Sarebbe stato meglio se ti fossi sparato in testa quel giorno: non hai fatto altro che portare sofferenza a tutti quelli che hai incontrato. Non sei che un mezzo che altri sfruttano, adesso come allora, e da ciò non ne è venuto, e non ne verrà, nulla di buono. L’unica cosa che hai ottenuto è perderti per sempre.” Serrò le labbra, ricacciando la voce nel pozzo più buio della sua anima.
Adesso era inutile avere rimpianti. Aveva scelto e di questa scelta avrebbe dovuto vivere. E pagarne le conseguenze.

Mostri

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Mostri è il racconto con cui ho partecipato alla seconda tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. Come la precedente tappa, il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; Mostri è la continuazione di Il Rosso e il Nero e mostra il punto di vista di un personaggio qui incontrato.

C’era una volta una principessa che viveva in un castello incantato. Era bella, buona e gentile e tutti vivevano in pace e armonia. Poi la principessa impazzì e diede inizio al massacro.
Questo poteva essere l’inizio di una delle sue favole preferite da piccola; le erano sempre piaciute le storie cupe e macabre: avrebbe voluto farne parte. I lieti fine la irritavano, perché nella vita reale le cose non finivano mai bene; gli eroi li detestava, perché erano figure false, costruite per illudere i bambini e farli sottomettere alla morale degli adulti. Adorava stare dalla parte del mostro; forse perché s’identificava in lui. Forse perché già allora era consapevole d’essere come lui. Sì, un mostro, proprio come la etichettava la maggior parte della gente. Era chiamata anche in un altro modo: strega. Due termini differenti, ma entrambi pronunciati con lo stesso disprezzo, lo stesso timore, lo stesso odio. Ma non li vedeva come qualcosa di negativo, anzi, erano un vanto, perché far paura significava essere rispettati. Lo diceva sempre la sua maestra: meglio carnefici che vittime. E aveva ragione. Dannatamente ragione: a essere vittime si stava da schifo.
Se i fianchi e le gambe non le avessero fatto un male d’inferno, avrebbe trovato quasi divertente come alle volte la sorte esaudiva i desideri: era la protagonista di una delle storie che tanto apprezzava. Solo che le cose non erano andate come sognato. Certo, si trovava in un castello incantato, pieno di poteri, di essenze soprannaturali; il suo proprietario, anche se non era una principessa, era stato pazzo come lei e aveva compiuto massacri in quel luogo per una vita intera. Così tanti ed efferati che aveva stravolto la sua natura, impregnando la sua essenza di dolore, orrore, paura in maniera tale che, anche se non esisteva più nel Mondo Materiale, continuava a persistere nel Mondo Spirituale.
“Ero così sicura di me, così eccitata dalla ricompensa che il mio signore mi avrebbe elargito una volta liberato, che non mi sono accorta della trappola. Eppure non mi sono sbagliata: lui c’era, conosco bene la sua aura. Come hanno fatto quei due maledetti a incastrarmi?” la sua mente lavorava febbrilmente mentre correva.
«Oh, guarda Nero…pensa che siamo dei semplici umani» aveva detto il gatto prima di rivelare la sua vera natura.
“Avrei dovuto sospettare che come guardiani avrebbero messo degli spiriti potenti. Talmente potenti da celare la loro aura ai mei poteri.” Ora però era tardi per recriminare. “Devo trovare una breccia nella barriera per tornare nel Mondo Materiale: è l’unico modo che ho per sopravvivere.”
Un cancello si aprì all’improvviso vomitando nel corridoio un nugolo di topi con la schiena piena di uncini. Squittendo impazziti si appallottolarono su se stessi e si lanciarono su di lei in uno stridente sferragliare di metallo. Il potere scaturì dalle sue mani, mandando gli spiriti a spiaccicarsi sulle pareti. Barcollò, avvertendo un senso di vertigine. “Sono ore che non faccio che correre e combattere, forse giorni.”
Catene munite di coltelli si scagliarono su di lei dal soffitto. Levò un muro di vento a sua difesa. Superò i resti metallici, ignorando le macchie rossastre che si stavano allargando sulla camicia.
«La carne, la carne.» Alle sue spalle il brusio degli spiriti non cessava mai, mentre i corridoi si susseguivano sempre uguali davanti a lei. “Devo continuare a salire: prima o poi troverò l’uscita.” Si gettò a capofitto su una rampa di scale; sbucò in un’ampia sala con un massiccio portone sul fondo. “L’uscita!” Scagliò il proprio potere contro le armature che si stavano staccando dalle pareti. Tutto intorno a lei divenne un vorticare di lame e fiamme.
E poi fu fuori, correndo a perdifiato nel cortile spoglio; la colorazione rossastra degli ambienti del castello lasciò posto al buio trasparente dello spazio aperto. Lanciò un’occhiata alle sue spalle: il castello incombeva su di lei, le nere mura che luccicavano di sangue, le guglie dentate con appesi scheletri urlanti e sbatacchianti.
Avvertì uno strattone alle caviglie e si ritrovò distesa al suolo. Tentacoli pieni di spine salirono lungo i polpacci e le cosce, insinuandosi sotto la gonna; il pizzo delle mutande non oppose nessuna resistenza. Sentì la punta acuminata e dura dei tentacoli cominciare a infilarsi nelle sue fessure. Un’ondata di puro terrore la travolse: scagliò il potere tutt’intorno in maniera incontrollata. I tentacoli schizzarono lontano, ricadendo sul terreno in un groviglio contorto. Si allontanò dallo spirito, incespicando e rotolando più volte a terra mentre cercava di rimettersi in piedi. Un’ondata di calore si allargò lungo le gambe. “Cazzo, me la sono fatta addosso” pensò mentre gli occhi si velavano e le lacrime scorrevano sulle guance. “No, non sono come loro: io sono più forte, molto più forte.” Ma i brividi che scuotevano il suo corpo dicevano che era proprio come le ragazzine con le quali si trastullava. Le vedeva nude e terrorizzate legate sopra il tavolo, urlanti e imploranti mentre le violava in ogni dove con qualsiasi cosa le veniva in mente. Ricordava il suo sussurro mentre avvicinava le labbra alle loro orecchie. “Non devi aver paura di questo: le donne sono fatte per prendere dentro di sé qualcosa di lungo e duro. Devi cominciare ad aver paura quando ti sventrerò in onore del mio signore.” Si eccitava vedendo il loro panico aumentare fino a farle impazzire.
Si rimise in piedi e corse dentro la foresta; i tremiti e le lacrime la accompagnarono a lungo: ora sapeva cosa si provava a essere stuprate.
Gli alberi attorno a lei si muovevano anche se non spirava vento, protendendo rami simili a dita per ghermirla. Alle sue spalle sentiva i sibili e lo sferragliare degli inseguitori, oltre all’incessante «La carne, la carne.»
«Da questa parte!»
Si voltò di scatto verso la voce: a una cinquantina di metri sulla sua sinistra scorse una sagoma umana che si stagliava in mezzo a una breccia nella barriera. “Il vecchio schifoso!” sentì la speranza pervaderla. “Se sopravvivo, gli darò anche l’anima!”
Una massa informe di spiriti si riversò famelica sullo stretto passaggio. Lampi brillarono davanti all’apertura, mentre la sua luce spariva soverchiata dalla schiera.
«…la città…» riuscì a sentire in mezzo allo stridere degli spiriti. «…prendi la breccia che si trova…» L’implosione coprì ogni altra parola.
Senza voltarsi riprese a correre, incurante degli arbusti che la sferzavano. Uscì dalla foresta sotto un cupo cielo verde-azzurro; in lontananza le luci della città brillavano con ferocia. Puntò dritto verso di essa, ormai sostenuta solo dall’adrenalina e dalla volontà.
Raggiunse la periferia cercando freneticamente con lo sguardo la breccia salvifica, ma ovunque guardava non faceva che scorgere spiriti. Spiriti fatti di lacci e siringhe, spiriti fatti di lattine e cocci di vetro: tutti si voltavano a guardarla con bramosia. Corse lungo i marciapiedi, tenendosi lontana dai palazzi che avevano per portoni voragini senza fine. Scorse due baluginii davanti a sé: uno in mezzo alla strada e uno oltre la recinzione contorta di un parco marcescente.
Un ululato risuonò alle sue spalle. Con le ultime forze si lanciò sulla strada, verso la breccia più vicina. “Sono salva!” pensò mentre la varcava e andava incontro alla luce.

Il vecchio arrancava e sbuffava: la corsa per lasciare la foresta e raggiungere la città era stata un tormento. “Devo arrivare là prima di lei. Devo fare in modo che prenda la breccia giusta: ho bisogno di sapere cosa ha scoperto!” Maledisse l’auto che si era guastata. E maledisse l’anca sciancata che non gli dava pace, ma non poteva fermarsi, non poteva permettere che tutto andasse perduto perché non era riuscito ad avvisarla in tempo. “Ormai ci sono…” Due auto della polizia lo superarono proprio in quell’istante.
Le macchine si fermarono con i lampeggianti accesi lungo il bordo del marciapiede. Il vecchio guardò e scosse la testa: troppo tardi.

Il Rosso e il Nero

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Il Rosso e il Nero è il racconto con cui ho partecipato alla prima tappa del contest Ferragosto d’Inchiostro 2017 di Writer’s Dream. In questa occasione il tema era libero, purché si usasse uno degli incipit e uno dei finali messi a disposizione dallo staff; avendo tale libertà, ne ho approfittato per creare una storia legata a un’ambientazione che ho già mostrato in Strade Nascoste e L’Ultimo Demone.

La volpe fece appena due passi lungo il fosso. Magra, la coda abbassata, annusava il terreno. Alzò il muso e lo girò verso la casa. Il Rosso, in piedi sul muretto, la teneva sott’occhio. I loro sguardi si incrociarono. Dal campo, due gatti si avventarono contro di lei e la costrinsero a fuggire.
Il Rosso la osservò saltare oltre il fosso che lambiva il bosco e sparire in una macchia di rovi. I due gatti passeggiarono nervosamente lungo la riva alcuni minuti prima di fare dietrofront e sdraiarsi all’ombra del grande faggio che cresceva in mezzo al campo. Assicuratosi che non ci fossero altri movimenti nelle vicinanze, saltò giù dal muretto e si diresse verso la casa, evitando le pozzanghere del vialetto. Aprì la porta senza far rumore, beandosi della frescura che i grossi muri di pietra mantenevano all’interno della stanza.
«Abbiamo avuto visite» con l’indice della mano destra il Nero indicò l’angolo più lontano della stanza.
«Non ha avuto nemmeno il tempo di gridare» costatò il Rosso non avendo sentito il minimo suono provenire dalla casa.
«Credeva che dormissi: è stato il suo primo errore.»
«E il secondo?»
«Mi ha scambiato per un cane» fece una smorfia di disappunto. «Un cane! Come se solo i cani possono starsene sdraiati davanti al fuoco di un camino.»
«I topi sono furbi, ma non sanno cogliere le sfumature. Non come i gatti» i baffi del Rosso si allungarono mentre sorrideva compiaciuto. Poi emise un sospiro. «Non potevi buttarlo fuori una volta eliminato? Deve venire sicuramente da una fogna: senti che puzza.»
«Certo che potevo» ammise il Nero. «Ma significava rivelare che il loro infiltrato era stato scoperto; in questo modo possono credere che il loro piano sta funzionando.»
«Un’astuzia degna di un lupo» il Rosso si sedette sulla poltrona dirimpetto a quella del Nero. «Sospettano che sia qui: una di loro gironzolava attorno alla casa.»
«Che aspetto aveva questa volta?»
«Una volpe» disse con nonchalance il Rosso. «Come se non fossimo capaci di accorgerci di un travestimento così mal fatto. Ci sarebbe da sentirsi offesi per come ci stanno sottovalutando.»
«Forse vogliono che pensiamo questo» il Nero incrociò le mani davanti al petto. «Forse fa tutto parte dei loro piani. In ogni caso, non fa alcuna differenza.»
«Quando pensi che agiranno?»
«Questa notte, quando il loro potere sarà più forte. Disponi i tuoi intorno alla casa. La sorveglianza deve essere massima.»
Il Rosso fece un cenno d’assenso. «E adesso aspettiamo.»
«E adesso aspettiamo» confermò il Nero.

Scrutò con attenzione l’area sottostante. Quattro gatti passeggiavano sopra il muretto di sassi, uno per lato, lanciando continue occhiate a destra e a sinistra, muovendosi silenziosi; altri quattro se ne stavano nascosti negli anfratti più bui del limitare del bosco, completamente immobili, gli occhi socchiusi ma vigili, per non rivelare la loro presenza.
Si sporse un poco in avanti per avere una visuale migliore della casa, dove la sorveglianza era più stretta: c’erano otto gatti, due per ogni angolo.
Con movimenti furtivi scese dall’albero. Strisciò in mezzo all’erba, evitando foglie e rami secchi. Si fermò vicino al muretto, scrutando la sua sommità; aspettò che il gatto che vi stava camminando sopra la superasse e poi vi si arrampicò sopra, scivolando rapidamente dall’altra parte. S’acquattò vicino a un basso cespuglio, osservando i movimenti dei gatti dinanzi a lei; con cautela prese ad avanzare, appiattendosi il più possibile contro il terreno. S’immobilizzò di scatto quando una cicala prese a frinire a poca distanza da lei; quattro paia d’occhi brillarono nell’oscurità, scrutando con attenzione il giardino. I minuti trascorsero lenti come se fossero ore; respirava appena, timorosa che il minimo movimento potesse farla scoprire. I gatti tornarono a portare la loro attenzione sulla porta e sulle finestre.
Con circospezione riprese ad avanzare, raggiungendo la parete della casa che non aveva nessuna apertura; vi si arrampicò sopra usando il tubo della grondaia per celare la sua presenza. Raggiunto il tetto, controllò che lì non ci fossero gatti. Assicuratasi d’essere sola, raggiunse il comignolo del camino: non un filo di fumo saliva da esso. Con circospezione lo toccò, sentendo che la pietra ormai era fredda. Scivolò al suo interno, procedendo nel buio più completo per un paio di metri. Sbirciò oltre il bordo dell’architrave: nella stanza non c’era nessuno. Raggiunse il pavimento, spostandosi rasente al muro per arrivare alla porta in fondo alla stanza. Lanciò un ultimo sguardo dietro di sé: c’erano solo la credenza e le due vecchie poltrone. Strisciò sotto la porta, ritrovandosi in un ambiente completamente avvolto dalle tenebre.
“È senza dubbio qui: solo lui può possedere una simile aura.”
Abbandonò le sembianze di lucertola, riassumendo quelle umane. Un cenno della mano e fece comparire una piccola sfera luminosa; con disappunto prese a spazzare via la fuliggine dai capelli biondi.
«Quello dev’essere l’ultimo dei tuoi pensieri» disse una voce alle sue spalle.
Si voltò di scatto, trovandosi dinanzi un uomo dai capelli rossi e uno dai capelli neri. “Non ho percepito la loro presenza…ma com’è possibile…” un sorriso si allargò sul suo viso “Sono dei semplici umani.”
L’uomo dai capelli rossi ricambiò il sorriso. «Oh, guarda Nero…pensa che siamo dei semplici umani.»
Il sorriso sparì dal volto della donna.
Il Nero si staccò dalla parete. «Non è più tempo di giocare al gatto col topo, Rosso.»
L’altro sospirò. «Peccato: era divertente. Almeno per noi» sorrise sornione. «Molto meno per te, strega.»
L’aria nella stanza ondeggiò. Le pareti oscillarono alcuni istanti prima di allontanarsi e innalzarsi; cancelli comparvero in esse, affacciandosi su stanze piene di lame e catene. L’ambiente assunse una cupa colorazione rossastra.
La strega fece un passo indietro, guardandosi attorno allibita. «Ma cosa…»
«Vedi, secoli fa qui sorgeva un castello, un luogo di violenza e tortura. Ora di esso e del suo sadico proprietario non rimane più nulla, ma certe cose lasciano un segno indelebile nel Mondo Spirituale, dando vita a vere e proprie piaghe. O inferni, come dite voi umani» spiegò con calma il Rosso.
La strega volse lo sguardo di nuovo su di loro, solo che al posto dei due uomini c’erano un gatto rosso e un lupo nero. Sbiancò di colpo. «Tu sei uno dei figli dello Spirito del Grande Lupo» deglutì a fatica la strega. «E tu…»
«Io sono un gatto» disse sornione il Rosso. «E tanto basta.»
«Quello che stai cercando non è qui; non lo è mai stato» intervenne il Nero. «Come altre della tua specie sei caduta nella nostra trappola. Come succederà ancora, dato che non avrai possibilità d’avvertire le tue simili.»
I cancelli alle pareti si aprirono. Un tintinnio metallico prese ad aleggiare nel lungo corridoio. Mani uncinate afferrarono le sbarre. Coltelli raschiarono le pareti.
«Sai, quello che anelano di più gli Spiriti è la carne» disse il Rosso prima di varcare l’apertura che il Nero aveva creato nella barriera tra il Mondo Materiale e quello Spirituale.
«Anche questa è fatta» il Rosso si stiracchiò assumendo di nuovo sembianze umane quando furono tornati nella stanza. Poi seguì il Nero fuori dalla casa, raggiungendo il centro del cortile dietro di essa; si fermarono a un paio di metri dalla quercia che vi cresceva. Il Nero volse lo sguardo al cielo: la luna stava per sorgere, la sua luce l’unica capace di dare una possibilità di fuga a quanto rinchiuso nell’albero. La corteccia si contorse, mentre un volto distorto dall’odio premeva contro di essa per uscire. Per ore il Demone mugghiò furioso nei suoi tentativi di fuga, facendo scricchiolò sinistramente il legno; poi tutto tacque quando la luna sparì oltre il bosco.
La quercia aveva resistito ancora una volta. Ma il volto del Demone rimase scolpito sul suo tronco.
Il Rosso e il Nero si scambiarono una lunga occhiata silenziosa, perché non c’era bisogno di parole per esprimere quello che provavano.
Quell’albero faceva davvero paura.

Reinor. Sottoterra. Parte 5

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Restò piacevolmente sorpreso quando li ritrovò raggruppati nell’attesa di un suo segnale.
“C’è ancora qualcosa che va per il verso giusto” costatò, senza però poter andare oltre questo pensiero.
Un bambino si accoccolò a terra, tenendosi la testa tra le mani e cominciando a piagnucolare. Subito la madre gli fu vicino, prendendolo tra le braccia e consolandolo.
«Mi fa male la testa» gemette il piccolo.
Altri si piegarono sulle ginocchia, riempiendo la caverna di lamenti.
“Un attacco mentale” intuì Reinor, prima d’essere investito da un’ondata di dolore. Una vampata bruciante s’irradiò dalla nuca, espandendosi con mostruosa efficienza al resto del capo. I margini del mondo si fecero annacquati e tremolanti, mentre la forza dell’attacco lo spingeva sempre più verso il terreno, facendolo vacillare a ogni passo. Ma più penetranti del dolore furono le grida di donne e bambini. Una furia a lungo celata lo travolse. “I bambini non devono vivere simili esperienze, non devono soffrire in questa maniera.” Mosse gli occhi alla ricerca delle creature.
Una cinquantina di metri sopra di loro, su un cornicione di pietra dove la volta si alzava, una dozzina di creature perpetrava l’attacco invisibile. Musi privi di mandibola osservavano inespressivi gli umani sofferenti.
Un arco incandescente sgretolò la roccia sotto le zampe d’insetto. Senza emettere un verso, gli esseri formica precipitarono al suolo, seppelliti sotto il peso delle pietre che li seguirono nella caduta.
Le grida si attenuarono, lasciando il posto a tremolanti singhiozzi. Le persone si guardarono spaurite, scuotendosi dall’intontimento quando la marea rossa sciamò dietro di loro.
Reinor si staccò dal gruppo colpendo senza posa.
La terra esplose in più punti, sollevando pietre e le creature che avevano la sfortuna di calpestarla. La formazione compatta che si era riversata nella grotta fu spazzata via.
Lo scontro, repentino com’era cominciato, terminò. Gli esseri formica restarono fermi, in attesa. Lo schieramento si divise in due: dalle retrovie emerse una figura che sovrastava le altre di almeno una testa. Il portamento, la corporatura più massiccia, il colore rossastro: tutto in lui sottolineava che non era come le altre creature. Occhi neri come un pozzo puntarono sull’Usufruitore.
“Un altro nemico da abbattere.” Le braccia di Reinor si protesero in avanti di scatto, lanciando strali di luce incandescente. L’essere barcollò leggermente, il fumo che si dissipava dai semplici graffi che avevano segnato il carapace rossastro, e poi prese ad avanzare con passi aggraziati, delicati.
Reinor attaccò di nuovo e con un’agilità impensabile la creatura evitò la sua raffica di dardi energetici, arrivandogli addosso in un batter d’occhio. Un arto scattò verso la gola, gli artigli che affondavano nella carne.
Gli occhi della creatura si dilatarono per la sorpresa quando l’uomo tremolò fino a scomparire, riapparendo a un metro di distanza. Un dolore straziante esplose all’altezza del petto, mentre pezzi di se stesso volavano in aria.
Gli artigli fendettero l’aria in un attacco veloce e potente: questa volta non c’erano illusioni a eludere il colpo. Un’altra artigliata s’abbatté sull’uomo, ma senza successo. Prevedendo che il colpo sarebbe stato evitato, la creatura si buttò in avanti prendendo in pieno l’uomo con il suo carapace e buttandolo a terra.
Un’esplosione di luce afferrò l’essere formica scagliandolo lontano. Protetto dallo schermo eretto nello stesso istante in cui aveva lanciato il contrattacco, Reinor prese ad avanzare.
La creatura era prona a poca distanza da lui come un cavallo cui era stata spezzata la spina dorsale. Negli occhi neri come il carbone c’era dolore e sofferenza, nei loro guizzi repentini la ricerca di una via di fuga e la muta richiesta di un soccorso.
La furia che si era impadronita di Reinor s’allentò, lasciando posto a un moto di compassione.
“Chi combatte è la causa della morte di un altro, ma non c’è vergogna nel provare pietà per la vita di un nemico che si spegne. Solo un morto può uccidere a sangue freddo e con la tranquillità nel cuore.” Vedendo la distruzione che aveva generato, non poté provare un senso di disgusto e d’ineluttabilità. “Alle volte si deve agire diversamente da ciò che si vuole. Come succede ai burattini.”
Con uno scatto impensabile per un ferito, l’essere formica si rialzò, ghermendogli la gola e sollevandolo da terra.
“È questa la risposta alla pietà?”
Un lampo saettò dalla mano protesa in avanti: un leggero sfrigolio, l’odore di carne bruciata e fu di nuovo libero.
Alla creatura restava solamente una delle due chele della bocca, l’altra asportata insieme a buona parte del lato destro del muso. Un occhio penzolava inerme sul bianco osso che faceva capolino tra il rossastro del carapace e il rosso cupo del sangue che scorreva copioso.
L’essere formica si lanciò in una carica forsennata. Reinor evitò con facilità il mulinello scomposto d’artigli, rilasciando dalle mani il Potere e mandando il nemico a ruzzolare lontano.
L’essere si rialzò barcollante, la mascella dilaniata trasformata in un ghigno di sfida. A un suo ordine mentale lo schieramento di creature si riversò sul campo dello scontro, pronto a travolgere l’Usufruitore.
I contendenti si fermarono all’improvviso in ascolto, attirati da un’interferenza che non poterono ignorare.
Il tipico zampettare delle creature prese a farsi sentire nuovamente. Reinor alzò lo sguardo e fu colto da un brivido: migliaia di esseri formica stavano scendendo da aperture del soffitto della grotta. Le pareti assunsero una colorazione rossastra, ricoperte fino a non lasciare un solo sprazzo di pietra spoglio. La legione si asserragliò attorno a loro in un anello impossibile da spezzare.
Nonostante la situazione apparisse disperata, Reinor ebbe la sensazione che gli eventi stessero prendendo una piega diversa da quella che appariva.
Le creature con le quali aveva lottato si erano raccolte in formazione serrata: nei loro occhi lesse timore. Non era l’atteggiamento che si aveva all’arrivo di rinforzi.
Ci fu un movimento tra le fila dei nuovi venuti: la nuova schiera si aprì, permettendo la comparsa di quattro figure uguali in tutto e per tutto a quella che aveva fronteggiato. Con incedere marziale si portarono davanti alla macera figura, allineandosi in una rigida postura.
“Capitano Wheidarnix” comunicò mentalmente uno degli esseri con striature nere che intarsiavano la fronte “secondo la legge del nostro popolo e la volontà della regina, tu e tutti quelli che ti hanno seguito dovete rientrare nei confini della nostra nazione, con esecuzione immediata dell’ordine. Sarai sottoposto a giudizio. Sei pronto ad accettarlo?”
Gli uomini e le donne alle spalle di Reinor stavano in un’attesa logorante, non potendo sapere quanto stava accadendo. Gli fece cenno di mantenere la calma.
“No” fu la risposta mentale data.
“Capitano Wheidarnix, comprendi la gravità della tua scelta? Stai infrangendo la legge e andando contro la volontà della regina.”
“Conosco la legge: non l’ho infranta, come non sono venuto meno alla volontà della regina; le mie azioni sono rivolte all’adempimento di quanto lei desidera. Non posso essere considerato un trasgressore. Quindi non posso essere punito.”
“Hai deciso dunque di non rispettare l’ordine?”
“Sì.”
“Quanto stai facendo è alto tradimento. Ritratta le tue parole finché sei in tempo.”
“Non lo farò. Se necessario, in questo luogo scorrerà il sangue del nostro popolo.”
Reinor percepì una forte tensione tra le file delle creature. Muti sussurri carichi di preoccupazione furono scambiati nel linguaggio telepatico.
“Riesci a prevedere le conseguenze del tuo atto? Accetta il giudizio emesso. Accetta la volontà della regina.”
“Vieni a dirmi di accettare la sua volontà, quando la sto già eseguendo?”
“Come puoi affermarlo?”
“La volontà della regina è creare un grande regno, dare lustro al nostro popolo. Siamo esseri evoluti, superiori a molte altre razze, come questi rozzi bipedi. È giusto che ci servano; reclutandoli non ho fatto niente che andasse contro la legge.”
“Non c’è differenza tra reclutare e schiavizzare secondo queste creature” pensò Reinor. “Probabilmente non conoscono neanche il concetto di schiavitù.”
“Non è il modo in cui lei vuole sia messa in atto” sentenziò il nuovo arrivato. “Tu e coloro che ti hanno seguito dovete consegnarvi.” Il tono non accettava repliche.
Il ribelle indietreggiò, portandosi nei pressi del suo contingente. I suoi soldati gli si strinsero attorno come una corazza.
Lo scontro ormai era inevitabile. “Il diversivo che ci serve per metterci in salvo.”
Un’intimazione più forte del ritmico calpestio immobilizzò tutti quanti.
“Fermatevi immediatamente!” ordinò una voce imperiosa che risuonò solamente nelle menti delle creature e di Reinor. Gli uomini continuarono a non sentire nulla, guardandosi attorno sempre più perplessi e impauriti.
Non permetterò che il sangue dei miei figli scorra per mano del proprio fratello.”
All’unisono tutte le creature s’inginocchiarono: un paio delle zampe anteriori si piegarono completamente, mentre quelle posteriori si flessero leggermente con l’acuminato pungiglione che faceva bella mostra di sé. Il tronco del corpo, costretto a seguire la postura della posa, era inclinato in avanti con il muso reclinato sul petto coriaceo.
“Miei fedeli capitani, avete adempiuto al vostro dovere. Ora ritiratevi, finché non avrò bisogno di nuovo di voi.”
“Come comandi, regina” risposero all’unisono le quattro figure allineate poco distante da Reinor.
“Quanto a te, capitano ribelle” continuò con durezza la voce “tornerai immediatamente, senza creare altri problemi. Perché è questa la mia volontà.”
“Mia regina, io ho sempre seguito la tua volontà…”
L’interruzione giunse immediata. “Non un’altra parola, capitano.” Nella voce si percepiva un’ira a stento celata. “Non riesci a capire gli effetti della tua accecata obbedienza? Non riesci a comprendere che la sopravvivenza del nostro popolo dipende dalla segretezza della nostra esistenza e da come sia ignorata dalle altre razze? Hai rischiato di far scoppiare una guerra con gli abitanti della superficie; una guerra che non possiamo vincere.”
“Mia regina, non sottovalutare il tuo popolo. Le abilità di questi esseri non sono pari…”
“Sono molti più di noi: questo è sufficiente per essere schiacciati. Inoltre, in questa razza esistono individui che non sono privi d’abilità come tu affermi. Ne hai incontrato uno ed è bastato a fermare uno dei nostri battaglioni.” Sottolineò l’ultima frase con forza. “Non rischierò una guerra che non porterà nulla di buono al popolo. Tu e coloro che ti hanno seguito tornerete alla città alveare. Seguirai gli altri capitani e che non debba più intervenire per far rispettare un mio ordine.” L’ultima frase fece presagire conseguenze pesanti per chi avesse trasgredito.
La stretta cerchia si aprì, lasciando un varco davanti al tunnel dal quale erano passati gli umani. I ribelli lasciarono il campo in formazione compatta e ordinata. Quando l’ultima fila scomparve nella tenebra della galleria, un numeroso distaccamento dei nuovi arrivati li seguì.
Al capitano Wheidarnix, rimasto solo, non rimase che incamminarsi a sua volta; ma prima di andarsene, lanciò un’ultima occhiata agli umani, soffermandosi per qualche istante su Reinor. Con zoppicante incedere, sparì nell’oscurità.
I restanti esseri formica si occuparono dei caduti, trascinandoli verso il luogo d’origine.
Presto nella grande caverna ci furono solo i fuggitivi umani e un gruppetto di retroguardia delle strane creature. Uno dei due comandanti rimasti comunicò con Reinor. “Andate creature della superficie, senza temere più nulla dal nostro popolo.”
Poi anche lui, con il resto del seguito, se ne andò.
La gente, muta fino ad allora, d’incanto riacquistò l’uso della parola. «Che è successo?» era la domanda che pioveva da tutte le parti.
«È finita.»
Chi erano quegli esseri? Cosa volevano? Come mai si sono intromessi?
Troppo domande cui rispondere e nessuna voglia di farlo.
Torneranno? Ci daranno di nuovo la caccia?
«Non vi daranno più fastidio.»
Come fai a esserne sicuro? Ci puoi assicurare che niente di questo si ripeterà? Come…
Affrettando il passo s’allontanò dalle tormentose domande. Presto raggiunsero la buca nella quale si era calato per cercarli.
Finalmente furono fuori, lasciandosi alle spalle la stantia aria del sottosuolo, accolti da una fresca brezza e uno scintillante cielo stellato. Nei campi cominciarono a sentirsi calorose pacche sulle spalle, sommesse preghiere di ringraziamento e qualche singhiozzo di commozione.
In disparte dal gruppo, Reinor guardò a oriente la tonalità più chiara del blu della notte, beandosi della brezza. Un rumore di passi lo informò che qualcuno si stava avvicinando.
«Non ho mai visto delle stelle così luminose» esordì Tgwaren quando gli fu appresso. «Non avrei creduto di apprezzare così tanto la bellezza della notte né di ritenerla così preziosa. L’ho sempre data per scontata; non ho mai pensato un giorno di rischiare di non vederla più» disse spaziando lo sguardo tutto intorno. «Reinor, ti siamo debitori, ti dobbiamo tutto. Non potremo mai ringraziarti abbastanza…qualsiasi cosa tu chieda, noi…»
Reinor gli appoggiò una mano sulla spalla. «Siamo stanchi e abbiamo bisogno di riposo. Affronteremo domani questa discussione.» Tagliò corto avviandosi verso il villaggio. «Consiglio anche a voi d’andare a dormire; sarete molto impegnati a dare spiegazioni.»

L’accampamento era avvolto nel sonno, i fuochi spenti da tempo. Cercando di limitare al minimo ogni rumore, Reinor salì sul carro e si sdraiò nel posto riservatogli per dormire, spiegando la coperta e avvolgendosi in essa. Nelle vicinanze sentì un corpo girarsi.
«Dove sei stato tutto questo tempo? Sono due giorni che non ti si vede.» Dal fondo del carro giunse la voce di mastro Cander.
«Ho fatto un’escursione nei dintorni» rispose semplicemente.
«Sei tornato in tempo. I lavori di riparazione sono terminati: si parte all’alba. Se avessi tardato, avresti dovuto trovarti un altro passaggio» terminò il mercante tornando a dormire.
All’ora prestabilita la carovana riprese il viaggio.
Reinor non s’accorse della partenza, immerso in un profondo sonno ristoratore.

Reinor. Sottoterra. Parte 4

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Non ci furono intoppi. Le donne non sollevarono obiezioni sulla fuga: svegliarono i bambini e si apprestarono a seguirli. Distribuite loro alcune pietre che si erano portate appresso, si rimisero in marcia, ripercorrendo la fenditura. L’intero percorso richiese più tempo dell’andata a causa della presenza dei bambini.
Guardandosi alle spalle, Reinor osservò la lunga fila di teste senza volto: gli diede l’impressione di tante pecore che seguivano il pastore per essere condotte all’ovile.
Lo stretto passaggio terminò, aprendosi sul vasto spiazzo dove avevano lasciato gli altri.
Fermo al limite della fenditura, Reinor scrutò le tenebre, assicurandosi dell’assenza di pericoli con il suo Potere. Soddisfatto, fece il segnale concordato.
Un minuto trascorse senza che niente accadesse. Il timore che fosse successo qualcosa prese a insinuarsi dentro di lui. Ripeté la segnalazione.
Un piccolo bagliore si accese a poca distanza, seguito a ruota da un altro e un altro ancora. Simili a stelle che sorgevano al calare dell’oscurità, le luci si andarono moltiplicando, trasformandosi in un’alba biancastra con lievi sfumature blu. Le forme delle stalattiti furono di nuovo visibili e dal loro riparo uscirono con passo incerto i primi uomini; viste le donne e i piccoli, si riversarono nello spazio della grotta, andando incontro ai loro cari. Famiglie furono riunite, bambini poterono di nuovo sentire l’abbraccio caloroso di entrambi i genitori; sorrisi estasiati e lacrime di commozione si mescolarono in quella ricongiunzione insperata.
Con rimorso, Reinor interruppe la felice ricongiunzione: a ogni istante la loro evasione poteva essere scoperta e la caccia al loro inseguimento aperta. Dirigendosi verso l’uscita della caverna, diede dei colpetti sulla spalla d’ogni uomo che era sulla sua direzione, facendogli cenno che era ora di andare; visti alcuni muoversi, tutti gli altri gli andarono dietro.
Più di una volta Reinor si fermò, mettendosi in ascolto di ogni rumore percepito, scrutando ogni anfratto sospetto. Non furono né la vista né l’udito ad avvertirlo del pericolo: fu qualcosa di simile a un sussurro, un piccolo pizzicore che era andato a sfiorare una parte recondita del suo inconscio. O forse si trattò solo di fortuna nel ritornare a passare la luce su un cunicolo che aveva già controllato: qualcosa di brunastro scivolò sulla pietra, così veloce da far pensare a uno scherzo della mente.
Ripresosi dal momentaneo stupore, Reinor s’inoltrò nel cunicolo, oltrepassando l’angolo che oscurava la sua visuale: c’era soltanto la nuda roccia ad aspettarlo. Con rapidi passi perlustrò la zona per una cinquantina di metri e poi tornò indietro, sollecitando gli uomini ad accelerare il passo.
Se fino a quel momento le creature avevano celato la loro presenza, adesso non facevano nulla per nascondersi: una zampa che spuntava da dietro una roccia, un artiglio che sfregava sulla pietra, l’ombra di un paio d’antenne stampata su una parete.
“Ci mancano ancora due caverne da attraversare, gli unici punti in cui possiamo subire un attacco di massa; se le superiamo, sarà semplice fermarli, bloccando l’entrata delle gallerie. Se solo…”
In mezzo alla via stava una delle creature, il ritmico oscillare delle antenne l’unico movimento del corpo. Reinor concentrò la sua attenzione si di esse: si trattava di movimenti lunghi e corti, alcuni mossi a scatti, altri portati a termine dolcemente. Lasciò che il suo pensiero si espandesse: in un istante nella sua mente si riversarono immagini che mostravano la posizione in cui si trovavano i prigionieri scappati, seguite dall’ordine d’intervento immediato.
“Possono comunicare con la mente come gli Usufruitori più esperti” scoprì stupito. Scattò in avanti, costringendo la creatura a ritirarsi e interrompere quello che stava facendo. «Muovetevi!» urlò senza voltarsi e correndo verso l’uscita ormai prossima.
I prigionieri si precipitarono in avanti, urtando le pareti e i loro vicini. Le donne presero tra le braccia i più piccoli, proteggendoli dalla calca che rischiava di schiacciarli. Le loro urla e quelle dei bambini fecero tornare la ragione agli uomini, calmandoli e facendoli stare attenti a non calpestarli. La corsa verso la salvezza riprese priva della frenesia che l’aveva caratterizzata inizialmente.
Tutti i ricettacoli di Potere di Reinor scattarono alla massima efficienza, pronti a captare ogni movenza del nemico. Percepì un lontano brusio simile al frinire di cicale, ma il contatto era troppo distante perché potesse distinguerlo chiaramente.
La fuga continuò e il brusio si trasformò in un assiduo mormorio che andava stringendosi attorno al suo cervello: sentiva le creature lanciate all’inseguimento incitarsi a vicenda in quella che ormai era una caccia aperta.
“Devo sapere quanto sono vicine.” Cercò d’isolare uno tra le centinaia di canali telepatici. Stretto in una morsa di dolore, con la testa sul punto di scoppiare, lanciò il suo pensiero in un attacco disperato. Le difese della sua mente scattarono a proteggerlo, interrompendo il collegamento instaurato.
Il contraccolpo della rottura fece ondeggiare il mondo attorno a lui. Ricacciò indietro i capogiri che lo assalivano, costringendosi a continuare ad avanzare. “Abbiamo soltanto un chilometro di vantaggio.”
La galleria si aprì su una conca costellata da stalagmiti e stalattiti, con un vasto corridoio nel mezzo che permetteva il passaggio di un numeroso gruppo di persone. Appena superò l’apertura, Reinor scartò di lato, fermandosi presso l’imboccatura; quelli che lo seguirono rallentarono, voltandosi a guardarlo perplessi.
«Non fermatevi!» gli urlò contro. «Imboccate il tunnel di fronte a voi e percorretelo fino alla prossima grotta. Superatela e prendete la strada che sale, seguendola finché non arrivate in superficie. Muovetevi!» tuonò vedendoli tentennare.
Quando l’ultimo uomo lo superò, si portò davanti all’apertura nella roccia. Anche senza il legame telepatico sapeva che erano vicini: poteva sentire il loro zampettare crescere d’intensità. Scagliò strali d’energia contro la volta dell’apertura. La terra tremò mentre macigni occludevano il passaggio. La polvere e i detriti si depositarono, permettendo di nuovo di vedere. Nonostante i metri di roccia che lo separavano dagli inseguitori, continuò a percepire il loro avvicinarsi: era come se stessero giungendo da tutte le direzioni.
Reagì d’impulso. Nella mano creò una sfera bianca e la scagliò contro il soffitto della grotta, inondandola di luce.
Su tutte le pareti e il soffitto si stagliavano decine e decine d’aperture: da ognuna giungeva lo zampettare assordante che li stava avvolgendo.
Prese a indietreggiare.
Una marea compatta e brulicante sciabordò nella grotta, vomitata dalle viscere della terra con violenza e rabbia: le creature con il secco scattare delle mascelle si riversarono in ordinata furia sulle pareti e sulle stalagmiti, nascondendone il colore con i loro corpi d’insetto. Come un esercito ben addestrato giunsero sul suolo della caverna, disponendosi ad arco, creando tre fronti serrati che si muovevano a velocità diverse.
Con il mantello che sbatteva contro le gambe, Reinor corse verso il gruppo che lo precedeva. Sorretto dal Potere, superò gli esseri formica, allargò le braccia verso l’esterno, portandole perpendicolarmente al proprio corpo e aprendo il palmo delle mani. Una sottile iridescenza aleggiò attorno agli arti superiori, esplodendo in un lampo di luce bianca: veloce come il pensiero, l’energia accumulata nelle mani andò a impattare contro le stalagmiti e le pareti.
Una pioggia di macigni cadde sul terreno, rompendo le file compatte degli attaccanti. La nube di polvere e detriti nascose alla vista gli inseguitori, mentre il rombo dei crolli copriva l’incessante zampettare.
Una rapida occhiata alle spalle gli confermò che gli uomini erano ancora lontani dall’uscita. Dalle mani scaturì un’ondata d’energia di potenza superiore alle scariche generate fino ad allora.
Quando le ultime rocce smisero di cadere, solo metà della grotta era stata risparmiata dall’attacco. La coltre di polvere aleggiò densa nell’aria, andando lentamente a depositarsi sul terreno. Una linea d’ombra scura emerse nel mare di foschia detritica.
Per un fronte di trenta metri Reinor si trovò a fronteggiare file e file di creature che continuavano a uscire dal muro di polvere. Lanciò rapide occhiate a destra e a sinistra: ripetere il crollo avvenuto prima era materialmente impossibile, stalattiti e stalagmiti si andavano diradando fino a scomparire e non credeva di avere la forza necessaria per far crollare l’intero soffitto. “Rimane solo una cosa.”
Veloce come il pensiero, l’energia fluì nell’area.
Gli esseri formica avanzarono imperterriti, andando a impattare contro una barriera invisibile. Negli occhi neri comparve incertezza e perplessità, anche se solo per un attimo. Con metodo presero a sondare la solidità della barriera, facendo scorrere su di essa gli artigli, cercando fessure in cui fare breccia. Non trovandole, aggredirono il muro di forza con ondate di energia celebrale.
L’impatto fu devastante e la barriera, come una barra di metallo, si piegò paurosamente. In un ultimo disperato tentativo Reinor inviò l’energia che ancora disponeva per rafforzarla.
L’arrivo simultaneo delle due forze ruppe l’equilibrio finora mantenuto: sovraccaricato, il muro invisibile esplose e una violenta onda d’urto si propagò fino ai lati della caverna.
Stordito dal colpo, Reinor rimase disteso al suolo, avvolto da un improvviso silenzio; mille luci danzarono davanti ai suoi occhi. Strinse le palpebre, resistendo all’impulso di lasciarsi andare all’oblio che lo stava chiamando.
Prese a strisciare verso una bassa sporgenza, aiutandosi con i suoi affioramenti a issarsi in piedi. Una fitta alla gamba destra lo costrinse a fermarsi al primo passo. Dallo strappo dei pantaloni vide il sangue scorrere da una lacerazione sotto il ginocchio. Zoppicando, si mosse verso l’uscita.
II tipico zampettare prese a risuonare nella caverna. Reinor aumentò l’incedere del suo passo. La volta della galleria incombeva su di lui, con le pareti grigie che gli si stringevano attorno.
Troppo tardi le creature capirono le sue intenzioni, lanciandosi a capofitto per fermarlo. Arrivarono presso la soglia nel momento in cui le prime pietre cominciarono a staccarsi dal soffitto, occludendo il passaggio.
“Spero di essere riuscito a fermarle.” Reinor fece per dare le spalle alla frana, avviandosi lungo la via che l’avrebbe portato in superficie.
Un sassolino lo superò rotolando. Un rivolo di polvere cadde su uno spigolo frastagliato, creando una piccola cascata di fini granelli.
“Non c’è niente che li fermi?”
Svoltato l’angolo dell’ultima curva prima dell’uscita, si trovò davanti a qualcosa d’inaspettato.
I fuggitivi erano fermi in mezzo alla caverna, sparsi in piccoli gruppi. Dal modo in cui si comportavano non sembrava fosse accaduto qualcosa di grave: le madri tenevano in braccio i bambini più piccoli, gli uomini stavano vicini borbottando tra loro.
Occhiate fugaci e bassi mugugni accompagnarono il suo passaggio. In ogni gruppo vedeva sempre le stesse cose: attesa e preoccupazione.
Nei pressi della parete alla sua sinistra scorse un gruppo d’uomini discutere animatamente a bassa voce. Senza essere visto si appostò dietro una stalagmite alle loro spalle.
«Non possiamo continuare a scappare. Non sappiamo dove andare e potremmo perderci o peggio. Dobbiamo fermarci.» La voce bassa e roca giungeva nitida e chiara alle sue orecchie.
«Così perderemo solo del tempo e vanificheremo gli sforzi di Reinor. Dobbiamo seguire le sue indicazioni.» Riconobbe in Tgwaren chi aveva preso la parola.
«Ti fidi di quell’uomo? Perché dovremmo credere alle parole di uno sconosciuto?» Ancora la prima voce simile a un ringhio.
«Perché sta rischiando la vita per noi. E credo che il suo piano per fuggire possa riuscire.»
Brontolii sommessi si levarono per dissentire sulle parole di Tgwaren, ma furono messi a tacere da un secco ammonimento. «È la prima volta che riusciamo a essere così vicini alle nostre case. Sono stanco di condurre una vita da schiavo, stanco di non sapere se sono ancora un uomo. Ci viene data una speranza e non voglio rinunciarci.»
Sportosi un poco, Reinor vide che gli uomini si stavano guardando l’un l’altro incapaci di controbattere.
«È da un pezzo che non lo vediamo» prese parola una terza persona. «Per quel che ne sappiamo potrebbe essere morto; potrebbero averlo ucciso.»
«Non credo che uno capace di trovarci sottoterra, eludendo la guardia di quelle bestie, possa essere ucciso tanto facilmente» fu la risposta pungente di Tgwaren.
«Quello che dici non ha senso.» Di nuovo il ringhio. «Come puoi esserne sicuro? Ti do io una sicurezza: se continuiamo a seguirlo ci faremo ammazzare tutti. Dobbiamo fermarci.»
«Così facendo le creature ci saranno addosso e ci cattureranno di nuovo» protestò Tgwaren.
«Certo.»
«Verremmo di nuovo costretti a lavorare!»
«Ma saremo ancora vivi!» sbottò con veemenza quello che più di tutti si accaniva contro Tgwaren. «Non capisci che se continuiamo su questa strada rischiamo davvero di farci uccidere? Se esageriamo, quelle bestie possono farci fuori tutti!»
«Possono farlo anche se restiamo qui!» ribatté stizzito Tgwaren.
«No, hanno bisogno di noi: per questo non c’elimineranno. Se ci mostreremo sottomessi, si limiteranno a rimetterci al lavoro.» La voce ringhiante si fece più conciliante.
«E cosa succederà quando non avranno più bisogno di noi? Chi ti dice che non si libereranno di noi?»
Altri borbottii si levarono questa volta a favore di Tgwaren.
«Che motivo avrebbero di fare una cosa del genere? Alla fine ci lasceranno liberi» disse l’odiosa voce.
«Dici questo da te, Arden, perché è una tua speranza o è quello che ti hanno fatto credere loro?» La domanda ammutolì ogni altra bocca. «Non hai mai rischiato in prima persona, hai sempre mandato avanti gli altri, appoggiandoti al più forte per avere vantaggi. Non mi sorprenderei di scoprire che tutte le fughe sono fallite perché c’era qualcuno che informava quegli esseri dei nostri piani. E che quel qualcuno fossi tu» Tgwaren sputò la sentenza come veleno.
L’imprecazione che uscì dalla bocca dell’altro diede il via alla colluttazione: le voci si alzarono di tono, seguite da strattoni e spintoni mentre i due contendenti venivano separati.
«Cosa state facendo?» sibilò una fredda voce alle loro spalle.
Più efficaci delle mani, le parole di Reinor misero fine alla disputa: tutte le facce si voltarono a guardarlo. Occhi brucianti di gelo s’inchiodarono su di loro, bloccando ogni reazione.
«Sembrate dei lupi che si azzannano per avere il primo morso della preda.»
Nessuno ebbe il coraggio di incrociare il suo sguardo.
«Dovevate pensarci prima di intraprendere la fuga: ora ogni ripensamento è inutile. Non si può tornare indietro. Tornate ai vostri posti: si riprende la marcia.»
La voce simile a un ringhio si fece di nuovo sentire. «Non sei il nostro capo per decidere quello che dobbiamo fare.»
Reinor puntò nella sua direzione. Piccoli occhietti verdastri saettavano da una parte all’altra senza mai soffermarsi su chi gli stava di fronte. Tutta la baldanza avuta finora dall’uomo si era volatilizzata. Arden spostò il peso del corpo da un piede all’altro, aprendo e chiudendo spasmodicamente le mani.
«Se hai qualcosa dilla ora o taci. Non abbiamo altro tempo da sprecare» disse freddamente Reinor. «E quando parli con me guardami in faccia.»
L’uomo sollevò lo sguardo, ma come sospettava, non riuscì a sostenerlo, focalizzandolo alle sue spalle, nella speranza che qualcuno lo sostenesse nel confronto. «Ci farai uccidere tutti, maledetto! Tu e i tuoi atti d’eroismo! Che c’entri con noi? Torna alla tua strada e lasciaci risolvere i nostri problemi da soli!»
«Anche se questo comporta la schiavitù?»
La faccia di Arden si contorse in un ringhio. «Non ci si può fare niente. Sono troppi e troppo forti. Dobbiamo stare buoni e tranquilli, perché se scateniamo la loro furia, non uno di noi rimarrà vivo» lo sfidò. «Tutto andava bene fino al tuo arrivo: bastava eseguire gli ordini e un giorno saremmo tornati liberi. Ma grazie a te abbiamo voluto fare i furbi e ora la tragedia si abbatterà su di noi. Ma c’è un modo per evitarla» un sorriso cattivo illuminò il suo viso rivolgendosi a chi gli stava attorno. «Consegniamolo alle creature quando ci raggiungeranno! Diciamogli che sotto la sua minaccia siamo stati costretti a seguirlo e che non potevamo fare nulla contro i suoi poteri! Capiranno e non ci faranno alcun male» enfatizzò il discorso puntando il dito su di lui.
«Anche facendo così, tornerete a essere schiavi; la vostra condizione non migliorerà.»
«Ma saremo vivi!» schizzò Arden. «E un giorno saremo di nuovo liberi.»
«È quello che credi o che ti è stato fatto credere. La realtà è che lavorerete per loro fino a quando la morte non vi coglierà. Solo allora sarete liberi» le parole di Reinor fecero impallidire molti volti.
«Si sbaglia! Si sbaglia!» parlò frenico Arden per timore che la sua presa sugli uomini svanisse. «Dobbiamo supplicarli e inginocchiarci: è l’unico modo. Non abbiate timore di lui. Siamo in di più, possiamo sopraffarlo.»
«Non credo proprio» fu l’atona risposta che uscì dalla bocca di Reinor.
Arden tentò di saltargli addosso. Si ritrovò la gola serrata dalla mano dell’altro, il respiro bloccato.
Negli occhi dell’Usufruitore bruciava una furia appena controllata. «Non sopporto chi non fa niente per proteggere ciò che possiede ed è disposto a farselo prendere senza reagire. Chi striscia e serve il più forte non ha dignità. E chi non ha dignità, non vale niente» sibilò a denti stretti. «Pur di salvarti venderesti tutti quelli che conosci» lo sbatté a terra. «Volete vivere da schiavi? Fatelo pure» disse rivolto agli altri. «Ma abbiate il coraggio di dire la verità ai vostri figli quando vi chiederanno il motivo di quest’esistenza, e cioè che non avete avuto il coraggio di combattere per la libertà e per coloro che amate. Se lottate c’è il rischio di morire, ma anche la possibilità di ottenere la libertà. Altrimenti continuate a strisciare. Ma qualsiasi cosa volete fare, fatela ora.»
Uno per volta sfilarono davanti a Reinor, dirigendosi alle proprie famiglie. Alla fine rimase il solo Arden, fermo nel punto in cui era stato sbattuto.
«Andiamo» gli intimò freddamente.
Come il più mite degli agnellini obbedì all’ordine, lo sguardo basso.

Reinor. Sottoterra. Parte 3

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Il piccone si alzava e si abbassava, il familiare tintinnio che scandiva il colpire la pietra, alzando schegge che andavano a mordere la pelle scoperta delle braccia e del volto.
Alzare e abbassare. Abbassare e alzare.
Questa ormai era la loro vita: il ripetersi costante e immutabile di quei due gesti. Erano costretti a eseguire il monotono e massacrante lavoro salvo una breve pausa per rifocillarsi di una sbobba schifosa che li aiutava a restare in piedi. Non sapevano mai quale ora del giorno fosse: la luce delle strane pietre che permetteva di vedere era sempre la stessa. Sapevano solo se dovevano lavorare o riposare.
Aveva dimenticato da quanto tempo era sepolto in quel luogo; ricordava appena l’aria pulita, il sole caldo, la natura, le chiacchiere e le risate con gli amici. La paura e il terrore presto erano stati risucchiati dalla stanchezza del lavoro cui erano sottoposti, lasciando la routine a occupare ogni pensiero.
A volte pensava, meno di quanto capitasse inizialmente, se quel genere d’esistenza poteva definirsi ancora vita. Tutto era incentrato sul lavoro, con quel tanto per dormire e mangiare per restare in forze. Erano solo corpi che svolgevano dei compiti, come gli automi.
Gli uomini che lavoravano con lui nella grotta si avviarono con i picconi appoggiati sulle spalle verso l’ingresso nella parete: anche quel giorno le fatiche erano terminate. Come sempre, attraverso cunicoli conosciuti alla perfezione, si sarebbero diretti agli spogli dormitori di pietra. Prima di varcare la soglia appoggiò il proprio arnese contro la roccia come tutti quelli che lo avevano preceduto e come avrebbero fatto quelli che lo seguivano.
Mettendo un piede dopo l’altro, guidato dalla tenue illuminazione delle strane pietre biancastre alle pareti, si avviò nel budello che ogni giorno calpestava.
Superò gli scalini calcarei, evitando che le sporgenze rocciose gli graffiassero la pelle. Erano soli nel tunnel, non c’era nessuno degli esseri che li avevano rapiti.
Ma anche se non presenti, li tenevano d’occhio. Conoscevano tutti i loro movimenti, sapevano sempre quello che facevano.
Già altri avevano tentato la fuga. Aveva perso il conto delle volte in cui aveva trepidato, certo che i suoi compagni fossero riusciti nell’impresa e stessero tornando con i rinforzi, irrompendo nella grotta e portandoli via verso la libertà. S’immaginava il grido di vittoria levarsi in alto, la felicità esplodere.
Era rimasto tutto nella sua mente.
L’entusiasmo era stato stroncato ogni volta: i fuggitivi venivano sempre ripresi. Lo spirito era fiaccato dal fallimento e da quello che succedeva dopo la cattura: chi scappava era rimesso al suo posto di lavoro.
Non c’era via di scampo: questo facevano capire gli esseri senza parlare.
Pensò a un modo per scappare. Anche se fosse riuscito a eludere la straordinaria sorveglianza, dubitava di trovare sottoterra l’orientamento per tornare in superficie. Si sarebbe perso e, nelle condizioni in cui era, la morte non avrebbe tardato ad arrivare. O, più probabilmente, sarebbe stato ripreso.
Non capiva come individuassero con una tale efficienza i fuggitivi senza dare nessun allarme. Non li aveva mai sentiti emettere un solo verso. Nonostante l’aspetto di bestie, possedevano una disciplina e un’organizzazione incredibili. Avevano suddiviso i compiti assegnando i più pesanti agli uomini, dando a donne e bambini lavori adatti alle loro capacità. Possedevano una gerarchia sociale strutturata e inflessibile: c’erano i lavoratori, un gradino sopra di loro che erano schiavi, e la cerchia ristretta di chi li governava. Senza dimenticare i soldati, spietati nella loro efficienza: li aveva visti, con tattica e determinazione, massacrare un verme gigante che aveva attaccato la colonia. Poi, imperturbabili, avevano fatto riprendere la routine come se niente fosse, mentre l’immensa bestia era fatta a pezzi e rimossa.
Ridusse la falcata perché l’andatura della colonna era rallentata: erano giunti alla stretta uscita del tunnel, dove una persona per volta poteva passare. Avanzò finché non giunse il suo turno di attraversare la soglia e immettersi nell’ambiente successivo.
Stalagmiti si ergevano come grosse e antiche querce, piene di pietre luminose che illuminavano ceppi di cristalli. Attraversò la navata naturale immergendosi in un mare di giochi di luce che danzavano sugli abiti consunti e impolverati.
Proseguendo la marcia per i dormitori non si curò delle maestose colonne gemmate che si perdevano nell’oscurità; la bellezza di quel luogo era sprecata per degli schiavi. Nessuno aveva voglia di ammirare quella meraviglia. Tutti avanzavano a capo chino, attenti a non inciampare in qualche ostacolo o a infilare un piede in una fenditura del terreno, trascinando le gambe stanche e doloranti. Ogni tanto un rumore proveniva dalle profondità dei tunnel e si perdeva nel buio: nessuno si voltava nella sua direzione. Erano diventati come pietra: impermeabili a tutto, lasciando che quanto accadeva attorno scivolasse via senza lasciare traccia.
La formazione ordinata tenuta fino a quel momento si sparpagliò, scorrendo tra i grandi pilastri.
Si fermò un istante con davanti l’immagine di tanti se stesso che si dirigevano nella stessa direzione. Emettendo un basso sospiro si stiracchiò per dare sollievo alle membra doloranti.
Passando vicino a uno degli agglomerati di cristallo, scorse sulla superficie liscia e trasparente come si era ridotto vivendo sottoterra: un volto smunto, smagrito, con la pelle tirata sugli zigomi sporgenti. Ciocche di capelli arruffati cadevano su occhi vacui dove la vitalità della giovane età s’era spenta; il colorito naturale della carnagione aveva lasciato posto al pallore per la mancanza di sole.
Accortosi di trovarsi nelle ultime file, si affrettò a recuperare le posizioni perdute: arrivare tra i primi significava avere i posti di riposo migliori. La caverna verso il fondo si stringeva a imbuto, costringendo le persone ad accalcarsi e aspettare il proprio turno per passare tra due colonnati di stalagmiti; a quel punto era già deciso chi si sarebbe sistemato meglio.
Sulla destra scorse una piccola apertura tra la selva di stalagmiti. La possibilità di avere una scorciatoia per superare chi gli stava davanti lo allettò; nel peggiore dei casi sarebbe dovuto tornare indietro e accontentarsi dei posti rimasti.
Addentrandosi nell’intricato sistema di formazioni rocciose si allontanò gradualmente dalla fioca luce, trovandosi sempre più immerso nell’oscurità. Attraverso gli spiragli che si aprivano tra le sagome scure, capiva qual era la sua posizione; procedendo si fecero più radi e così dovette affidarsi al tatto per procedere.
Passarono i minuti e non incontrò nessuna uscita nel fitto dedalo. Il timore di perdersi cominciò a mutarsi in paura. Fantasie di quello che poteva accadergli nel vagare nell’oscurità galopparono nella mente: caduto dentro un crepaccio, catturato da predatori sconosciuti, disperso in gallerie senza fine.
Una strana eccitazione lo spinse a continuare quasi con bramosia. Una parte di lui gli ricordò che non si sarebbe comportato così in condizioni normali; la normalità però era finita da tempo.
Con la scarica d’adrenalina che gli scorreva in corpo si sentì di nuovo vivo, proseguendo in quel salto nel vuoto.
Aveva aggirato una grossa formazione calcarea, quando si trovò a guardare la luce che filtrava da una fessura di una stalattite che si univa al terreno; scorse delle teste che si muovevano.
Sorrise: avrebbe riposato in un luogo più confortevole del precedente. Espirò per allentare la tensione accumulata.
Qualcosa lo afferrò da dietro, trascinandolo lontano dalla luce. Ebbe solo il tempo di pensare che le sue fantasie si erano avverate.

Per diversi istanti rimase bloccato lasciandosi trascinare nel buio più totale, i muscoli che non reagivano. Poi lo spirito di sopravvivenza vinse la paura e cominciò a dimenarsi con forza selvaggia: tentò di colpire l’aggressore scalciando all’indietro, mentre con entrambe le mani cercava di liberarsi della morsa che premeva sulla mascella.
Una presa ferrea s’impossessò del suo polso, piegandogli il braccio dietro la schiena. Un dolore lancinante guizzò nel cervello, costringendolo a piegarsi sulle ginocchia.
«Calmati.»
Immobile, con il cuore che rimbalzava impazzito contro le costole, rimase in attesa.
«Ora lascerò la stretta. Non metterti a urlare: non voglio avere addosso tutta l’attenzione del sottosuolo.»
Le mani sulla bocca e sul braccio lo lasciarono. Mentre respirava ad ampie boccate sentì un fruscio di vesti spostarsi a poca distanza da lui. Ammiccò all’inaspettata luce; quando tornò a vedere senza provare fastidito, si ritrovò al centro di uno spiazzo non più largo di una decina di metri, ai cui margini si ergevano aguzze stalagmiti, alte quattro volte la sua persona. Solo una piccola apertura tra i denti rocciosi interrompeva la selva di pietra.
Un uomo con le braccia incrociate sedeva su un piccolo affioramento calcareo con a fianco una sfera luminosa.
Il silenzio si dilungò troppo a lungo perché potesse sopportarlo oltre. «Che cosa vuoi da me?» chiese in tono diffidente.
«Voglio parlare con chi rappresenta le persone prigioniere qua sotto.»
«Non c’è nessuno che ci rappresenti: siamo tutti schiavi alla stessa maniera.» Con parole cariche d’amarezza, si lasciò cadere a terra, appoggiando la schiena alla dura roccia. «Serviamo solo per lavorare e viviamo finché siamo in grado di lavorare» continuò mestamente. «Se anche ci fosse qualcuno che ci rappresenti, cosa dovresti dirgli? E soprattutto chi sei? Non appartieni al nostro villaggio, né a quelli vicini e sei qui sotto da poco: si vede dai tuoi vestiti. Non sai ancora come funzionano le cose. Se speri di ottenere aiuto, scordatelo. Nessuno qua può darti niente.»
«Non sono qui per avere aiuto, ma per darlo» fu la concisa risposta.
«Dare aiuto?»
«Posso riportarvi in superficie.»
«Come hai detto?»
«Esattamente quello che hai sentito» ripeté l’uomo.
«Non sai quello che dici» scosse il capo. «Non c’è modo di fuggire. Credi che non sia già stato provato? Ormai abbiamo perso il conto dei tentativi di fuga. Un susseguirsi di fallimenti. Chi ha tentato di scappare è sempre stato ricondotto indietro. Non c’è modo di superare la sorveglianza. E anche se ci riuscissimo, non sapremmo come orientarci per uscire da qui.»
«Io conosco la via.»
«Riesci a ricordare la strada dopo essere stato trascinato qua sotto?»
«Non sono stato catturato: ho seguito le vostre tracce nei cunicoli, lasciando dei segnali da seguire per tornare in superficie.»
«Avevo ragione: tu sei pazzo. Nessuna persona sana di mente farebbe una cosa del genere.»
«Preferivi che nessuno fosse venuto a cercarvi? Non dirmi di non averci sperato.»
«Allora non vuoi capire quello che ti ho detto. È impossibile eludere la sorveglianza: sono ovunque, un’intera legione che ci sorveglia, cui non sfugge nulla, come se potessero leggere nella nostra mente.»
«Preferisci rischiare avendo una speranza di farcela o startene al sicuro sapendo la misera vita che ti attende fino alla fine dei tuoi giorni?»
«Troppe volte ci siamo illusi e la delusione è più pesante da sopportare della fatica.»
«Non ci sarà delusione stavolta. Non possono prevedere quello che non sanno e non possono anticiparvi se non conoscono le vostre intenzioni. Se si agisce subito, cogliendoli alla sprovvista, si può riuscire» disse lo sconosciuto con decisione. «Quando riposerete, la sorveglianza diminuirà e sarà allora che avverrà la fuga. Non sospetteranno che la tenterete dopo una giornata di fatiche: crederanno che non ne siete in grado per mancanza di forze.»
«Non possiamo andarcene senza donne e bambini: ci tengono separati per prevenire ogni tentativo di fuga di massa.»
Lo sconosciuto lo rassicurò. «Non ti preoccupare. Ci sono molti tunnel che comunicano tra loro. Lunga la via di fuga c’è una grotta, nella quale convergono svariati cunicoli: uno di questi porta ai dormitori delle donne. Se accetterete di venire, v’incontrerete in quel punto e proseguirete insieme.» Terminò il discorso avviandosi verso la luce che s’intravedeva tra le fessure delle rocce.
«Aspetta un attimo. Non capisco perché fai questo, ma almeno vorrei sapere il tuo nome.»
«Reinor» disse l’uomo senza voltarsi né fermarsi.

Avvolto nell’ombra, Reinor aspettava che gli uomini poco lontani, quelli che un tempo avevano ricoperto cariche di comando nei villaggi dai quali provenivano, terminassero la consultazione. Nel mentre, osservava le grotte che fungevano da dormitori.
Larghe il doppio delle gallerie finora percorse, parevano l’impronta delle dita di una gigantesca mano penetrata nella dura pietra. Le persone dormivano su un fianco assiepate sul pavimento di roccia, ammassate come bestie; i più fortunati giacevano in rientranze delle pareti, sopraelevate rispetto al terreno, molto simili a catacombe. Dovevano esserci almeno trecento uomini.
Cominciava a rendersi conto di ciò cui era andato incontro: aveva creduto di avere a che fare con bestie del sottosuolo a caccia di prede, invece si trovava ad affrontare una comunità numerosa e ben organizzata; probabilmente possedevano un’intelligenza simile alla loro. Questo rendeva le cose più complicate, riducendo i margini d’errore al minimo.
Un leggero rumore di passi lo riscosse dai suoi pensieri. Uscito dalla zona d’ombra in cui si era sistemato, andò incontro a Tgwaren, l’uomo che l’aveva guidato dai prigionieri.
«Accettiamo la proposta.»
Non era stata una decisione facile: dietro di lui vedeva gli altri scambiarsi rapide occhiate di perplessità e sfiducia.
«Quanto tempo vi ci vorrà per radunare gli uomini ed essere pronti a partire?»
«Il tempo di svegliarli e spiegare la situazione.»
«Bene» sentenziò Reinor.
Tgwaren era titubante. «Come li convinceremo nel caso dovessero opporre resistenza?» Una certa ansia trapelava nella sua voce.
«Nulla di questo accadrà.» Con un cenno gli indicò di precederlo.
Una piccola folla cominciò a formarsi con l’aumentare della gente che usciva dalle grotte. Occhi carichi di sonno e confusione guizzarono in ogni direzione in cerca di risposte. In breve l’anfiteatro naturale fu pieno, tutti gli sguardi puntati sulla figura avvolta nel mantello.
Un uomo sulla cinquantina con capelli e barba striati di grigio prese la parola. «Ascoltate, non abbiamo molto tempo.» Attese che ogni discussione cessasse. «Tenteremo la fuga. Tutti insieme.» Il brusio esplose in una protesta animata. Molti scossero la testa.
«Abbiamo già tentato di scappare e abbiamo visto i risultati» si levò una voce da un lato della caverna.
«Non c’è modo di eludere la guardia di quegli esseri» protestò un altro.
«Non sapremmo dove andare.»
«È tutto inutile. Lasciateci tornare a riposare» terminò la protesta un uomo in prima fila.
«Smettetela» urlò Tgwaren, sovrastando la cacofonia della massa. «Quest’uomo è giunto fino a noi seguendo le nostre tracce, riuscendo a eludere chi ci tiene prigionieri» indicò Reinor. « È qui per portarci fuori. Io dico di fare un tentativo: non mi va di passare il resto dei miei giorni qui sotto. Nella peggiore delle ipotesi ci riporteranno indietro.»
«Potremmo non essere altrettanto fortunati questa volta» sbottò un uomo grasso. «Potrebbero toglierci di mezzo.»
«Non lo faranno» ribatté Tgwaren. «Almeno finché non avremo terminato la costruzione della loro città.»
Il dibattito riprese, rischiando di continuare a lungo. Reinor si portò davanti alla folla.
«Ognuno di voi decida quello che vuole. Non posso più aspettare oltre: donne e bambini attendono il mio ritorno. Se volete vivere in questa maniera, fate pure: io devo occuparmi di chi vuole tornare a essere libero.» Fronteggiò la folla per alcuni istanti; poi si voltò e riprese il tunnel che lo aveva condotto fino a lì.
La sua mente allenata colse una vibrazione nelle linee di forza che scorrevano in tutta la materia. «Nelle grotte!» intimò perentorio. «Stanno arrivando!»
Fu sufficiente a farli muovere. Reinor rimase di fianco agli ingressi finché non furono entrati tutti. «State giù, come se dormiste» li ammonì. «Nessun rumore, nessun lamento.»
Si distese in mezzo a loro in modo da vedere quanto avveniva nei pressi dell’apertura della grotta.
I minuti trascorsero scanditi dal respiro degli uomini e dalla goccia che si tuffava dal soffitto in una pozza d’acqua.
Iniziò come un leggero fruscio, che andò mutando in un ritmico zampettare. Sentirono le creature aggirarsi nell’atrio davanti agli ingressi, come tante lance che colpivano la dura pietra. Le udirono allontanarsi, poi di nuovo avvicinarsi. Le zampe raschiarono contro le rocce della piccola salita innanzi all’apertura.
Lo zampettare all’improvviso cessò e il silenzio calò nuovamente sull’area; una flebile ombra fu proiettata nel debole arco di chiarore presente all’ingresso. Reinor cercò di vedere senza esporsi, ma a causa di un affioramento roccioso non ci riuscì. Muovendosi con cautela prese ad alzarsi; si era sollevato di pochi centimetri dal suolo che un rapido guizzo di una creatura lo costrinse a tornare repentinamente a sdraiarsi. Un lembo del cappuccio gli finì sulla faccia occludendogli la visuale; per non essere scoperto non si azzardò a scostarlo, rimanendo immobile.
Il ticchettio si avvicinò, avanzando lentamente.
Reinor fu percorso da un brivido quando si sentì toccare lievemente un polpaccio. Tenne i nervi saldi mentre il tocco si ripeteva sulla schiena e sulle spalle. Sperò che gli altri uomini reggessero alla tensione e non commettessero qualche imprudenza.
Il controllo cessò di colpo e la creatura si allontanò. Nel sottile spazio lasciato libero dal mantello riuscì a scorgere tre robusti artigli disposti a y che fuoriuscivano dalla spessa fibra rosso-marrone di un arto dell’essere.
L’ispezione durò ancora qualche minuto prima che le creature fossero soddisfatte e tornassero indietro. Il ritmico incedere si fece sempre più lontano, fino a che non tornò il silenzio. Restarono a terra a lungo senza muoversi, con addosso il brivido dell’esile tocco.
Quando si rialzarono, in tutti gli occhi c’era la consapevolezza di non voler più vivere quell’ossessione. Seguirono Reinor senza levare alcuna protesta.

Attraversarono l’intricata foresta di stalagmiti e stalattiti dove poco prima Reinor e Tgwaren si erano incontrati. Non ebbero difficoltà a passare nella selva scura grazie alle pietre luminose che l’Usufruitore aveva raccolto e distribuito.
Alla guida del gruppo, Reinor li precedeva, i sensi all’erta, consapevole che se ci fossero stato avvisaglie di pericolo avrebbe potuto fare ben poco per nascondere gli uomini. Ogni svolta della galleria era un salto nel buio, ogni zona oscura un possibile nascondiglio di creature ostili: qualsiasi scelta poteva condurli alla rovina.
Si fermò, accertandosi di non aver distanziato troppo il gruppo: con passo incerto le prime fila lo raggiunsero con il fiato corto per la marcia senza riposo. Concesse loro una piccola pausa prima di proseguire.
Giunti alla fine della galleria si trovarono davanti a un vasto spiazzo libero da ogni tipo di formazione rocciosa; solo nella parte sinistra, all’imbocco di un altro tunnel, s’innalzava una piccola foresta di stalattiti. Li fece sistemare al suo interno in modo da non essere individuati, ingiungendo d’eliminare ogni fonte d’illuminazione.
«Andrò dalle donne e dai bambini per condurli fino a qui» disse con tono che non ammetteva repliche. «Non voglio trovare al mio ritorno una schiera di creature perché qualcuno non è stato capace di restare nascosto. E se avete paura, ricordatevi che vi aiuterà a restare vigili.» Fece cenno a un paio d’uomini di avvicinarsi. «Quando sarò di ritorno farò un segnale: due segnalazioni luminose, una pausa, altre due segnalazioni. Allora potrete muovervi. In nessun altro caso dovrete spostarvi dalle vostre posizioni. E ora coprite le pietre luminose.»
Rimaste esposte solo quelle di Reinor e degli uomini che dovevano accompagnarlo, il piccolo gruppo si diresse verso la parete opposta dove, nascosta da una stalagmite solitaria, si apriva uno stretto crepaccio, simile al taglio lasciato da una gigantesca spada.
Tgwaren, che seguiva dappresso Reinor a capo della fila, gli tirò un lembo del mantello senza farsi notare dagli altri.
«Perché non hai detto prima che avevi già convinto donne e bambini a seguirti? Non avremmo perso tempo in discussioni inutili» sussurrò alle sue spalle.
«Perché era l’ultima risorsa che avevo per convincervi» rispose semplicemente Reinor.
«Perché l’ultima?» chiese dubbioso Tgwaren.
«Era un bluff.» L’Usufruitore voltò di poco il capo all’indietro. «Non ho mai parlato con loro.»
«Ci hai ingannato» c’era incredulità nella voce di Tgwaren. «Allora non sai neanche dove sono…»
Reinor non gli fece terminare la frase. «Sono andato da loro prima di venire da voi, anche se non ci ho parlato.»
«E come farai a convincerli?»
«Non lo farò io: lo farete voi» allungò il passo, costringendo l’altro a rincorrerlo.
«Come dovremmo farlo?»
«Dire semplicemente come stanno le cose» rispose rapido Reinor. «Fra poco ci sarà un piccolo spiazzo: mi aspetterete lì mentre faccio un giro di perlustrazione. Nel frattempo potrete decidere cosa dire.»
Tgwaren lo osservò mentre si allontanava, cercando di trovare il coraggio per spiegare ai due che lo seguivano il quadro della situazione.

Reinor. Sottoterra. Parte 2

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Arrivarono al villaggio quando la luce solare non lambiva più i tetti delle case.
Attesero inutilmente che qualcuno uscisse dalle abitazioni per accoglierli. Alcuni mercanti andarono a bussare alla porta del primo edificio sulla strada. Non ottenendo risposta, passarono a quello successivo. Soltanto al quarto qualcuno si degnò di affacciarsi alla finestra e ascoltare le loro richieste, indirizzandoli all’abitazione dell’autorità di Knader, un edificio nei pressi della piazza. Fu permesso loro di accamparsi vicino al villaggio, ma delle altre questioni se ne sarebbe parlato il giorno successivo.
I viaggiatori trascorsero una serata tranquilla attorno ai falò, mentre nelle case non riluceva alcuna luce. I discorsi calarono di tono e i fuochi cominciarono ad affievolirsi, lasciando la piana rischiarata solamente dalle stelle del cielo.
L’albeggiare del nuovo giorno giunse e un gallo cantò. Il fumo prese a uscire dai camini. Gli abitanti di Knader uscirono senza fretta dalle case per andare ai propri lavori.
“C’è qualcosa che non va.” Reinor vedeva i volti delle persone troppo abbattuti e timorosi per rientrare nella quotidianità. Inoltre parte della popolazione non partecipava alla vita del villaggio: metà delle porte erano rimaste chiuse, senza che un filo di fumo uscisse dai rispettivi camini.
Dopo aver osservato per qualche minuto la scarsa attività del villaggio, si ritirò verso la campagna, lontano dalla carovana dove i lavori infervoravano, per portare avanti gli studi senza essere disturbato. La parte di regione dove si trovavano non presentava bellezze particolari: era una vasta piana coltivata, puntellata qua e là da boschetti di faggi e pioppi, con numerosi torrenti che nascevano dal sottosuolo. Un paesaggio monotono, interrotto a est da una catena montuosa.
Lontano dai rumori, giunse a una muraglia quadrata fatta di sassi e malta, non più alta di un uomo; dietro allo sciupato cancello di legno si scorgevano ordinate fila di lapidi di pietra.
“Non sono state scavate fosse di recente.” Il fatto sconfessava il suo ragionamento iniziale, quando aveva pensato a un’epidemia per giustificare la mancanza di tanta gente.
Arrivò sulla sommità di una bassa collina. Alla sinistra c’era il villaggio con i contadini che lavoravano la terra; davanti a sé e alla destra si stendevano ampie distese intervallate da abitazioni rurali. Aguzzando gli occhi notò che nelle loro vicinanze non c’era nessuno occupato a lavorarli.
S’incamminò in quella direzione, dimentico dei suoi studi.
In una delle case scorte dall’alto si presentò la stessa scena vista al villaggio: dalle finestre vide che le camere erano in ordine, ma deserte. Nessuno rispose ai suoi richiami. La porta non era sprangata. Dalla soglia gettò una rapida occhiata all’interno: i piatti sulla tavola erano ricoperti da un sottile strato di polvere, così come le fette di pane indurito. Dalla pentola sul fuoco spento giungeva l’odore di cibo andato a male. Chi aveva abitato lì se n’era andato all’improvviso.
Richiuse la porta e tornò al campo.
“Come può metà della popolazione sparire o andarsene senza lasciare traccia, abbandonando tutto?” Fare domande in giro non sarebbe servito a chiarire il mistero: la gente non avrebbe risposto. Sguardi guardinghi, corpi sempre tesi a scattare. Glielo leggeva negli occhi: conviveva con la paura di avere a che fare con qualcosa di sconosciuto e di poterne essere colpita in qualsiasi momento.
Passò il pomeriggio dedicando la sua attenzione a un libro, sperando che questo lo aiutasse a rilassarsi e a chiarirsi le idee. Nelle sue pagine erano riportati esperimenti su come ricercare e trovare nuove vie per liberare i poteri reconditi dell’individuo. La lettura era affascinante e coinvolgente, ma non perse mai d’occhio quanto succedeva attorno a lui. Arrivò la sera e la gente di Knader ritornò dai campi per riposarsi dalle fatiche della giornata. Non sfuggirono al suo sguardo i gruppetti in cui le persone si riunivano, discutendo frettolosamente a voce bassa. Non c’era traccia di cordialità nei loro sguardi, traspariva soltanto agitazione e paura. Senza salutare si rintanavano nelle case sbarrando le porte. Quella sera un camino in meno levò la sua spirale di fumo verso il cielo.
Le ombre si allungarono fino a confondersi con l’oscurità. Reinor fissò la pagina del libro che stava leggendo: sapeva come trovare indizi per svelare l’arcano.

La giornata cominciò come la precedente: i mercanti che lavoravano ai carri e i contadini che si avviavano ai campi con gli attrezzi in spalla. Sembrava di assistere a gente che veniva deportata o doveva finire sul patibolo: avevano gli stessi occhi dei condannati, rassegnati a un destino inevitabile.
Senza farsi notare, Reinor li seguì, dirigendosi verso i campi lasciati liberi, scegliendo l’appezzamento più lontano dalla visuale dei contadini e camminando fin dove la terra era stata lavorata.
Un piccolo bagliore colpì i suoi occhi.
Ascoltando un imprecisato istinto evitò di giungervi in linea retta, seguendo la linea invisibile di una larga curva. Giunto sulla terra ancora vergine si accoccolò sui talloni a mezzo metro dall’oggetto che aveva attirato la sua attenzione. Con cautela allungò la mano per raccoglierlo, come se si aspettasse che qualcosa uscisse dal terreno e l’afferrasse. Non successe niente, ma il senso d’allarme che lo attanagliava non accennò a lasciarlo. Ripulì l’oggetto e l’esaminò: una semplice forcina per capelli.
Le immagini lo aggredirono all’improvviso.
Stava camminando nel campo. Sentiva sulle spalle il sole al tramonto; con una mano scostò una ciocca di capelli scuri che era finita davanti agli occhi. Con le gambe pesanti per la giornata lavorativa, avanzò stancamente verso la brocca d’acqua posta sotto gli alberi, i passi intralciati dalla lunga gonna. Provò un sussulto quando sentì la terra mancare sotto i piedi. Il terreno sotto le sue scarpe si mosse con violenza crescente, facendo sprofondare una gamba fino al ginocchio. Il panico la colse e cercò di tirare fuori l’arto, afferrandolo con le mani, ma anche l’altra gamba prese a essere risucchiata nel terreno. La terra le brulicò addosso, formicolante come una moltitudine di ragni che avanzava inesorabilmente. Cercò di afferrarsi a qualcosa mentre la sentiva salire fin sopra la vita, le braccia che annaspavano come un naufrago sballottato dalle onde. Bloccata dallo choc e dal panico, tentò di lanciare un grido, ma il sapore della terra andò a riempirle la bocca, mentre il sole si oscurava. L’ultima cosa che sentì fu qualcosa che la trascinava sotto.
Reinor si riscosse, sentendo la forcina entrargli nelle carni per quanto forte la stava stringendo. Respirò a pieni polmoni, tornando in possesso delle sue capacità. “Quel libro mi è stato davvero utile.” Ma non era il momento di pensare alla scoperta di un nuovo lato dei suoi poteri.
Impugnata la zappa dalla parte metallica, prese a spingerla con cautela oltre il terriccio dove aveva trovato la forcina. Il manico, sempre con maggiore facilità, prese a scendere in profondità. A metà della sua lunghezza, Reinor prese a far leva. Il terreno implose su se stesso, aprendo un buco capace di contenere una mucca. Guardò all’interno del piccolo cratere: fondo quasi due metri, si trasformava in una galleria capace di far passare un uomo, inabissandosi nel sottosuolo.
“Ecco come sono sparite quelle persone. Rimane da scoprire chi ha creato questi tunnel.”
Discese fino ad arrivare all’imboccatura della galleria. La luce del giorno rischiarò ancora per qualche metro i suoi passi nel passaggio; sollevò una mano, creando una piccola sfera luminosa che dissipò le tenebre.
L’aria si fece pregna dell’odore della terra e la temperatura aumentò mentre si addentrava nel tunnel, avvolgendo il corpo in un sudario soffocante; poche centinaia di metri e aveva gocce di sudore che gli scorrevano sulla schiena.
Osservò il divincolarsi di grossi lombrichi nel terreno. “E se avessimo a che fare con i loro fratelli maggiori?” L’immagine di un lombrico di svariati metri che torreggiava su di lui non era per niente piacevole.
La lenta discesa continuò monotona, le pareti intervallate da radici simili a vene sporgenti, fino a quando si trovò dinanzi a un bivio. Prese la via di destra.
Seguendo le svolte del tunnel continuò a scendere, il terreno molle d’umidità. Senza preavviso la pendenza della galleria cominciò a salire bruscamente, costringendolo a usare le mani per inerpicarsi. L’arrampicata durò quindici metri e il terreno tornò in piano, permettendogli di continuare senza difficoltà. La temperatura si fece più mitigata, con l’odore della terra meno penetrante e persistente. Provò un senso di sollievo quando una zaffata d’aria fresca gli arrivò alle narici. Seguendo la scia si ritrovò davanti un muro di terra: il passaggio terminava in quel punto. L’aria percepita proveniva da un’apertura grande come un pugno sopra la sua testa; con le mani l’allargò, ritrovandosi a guardare il cielo limpido. Era arrivato nel punto in cui la voragine si era aperta sotto i carri.
Girò i tacchi e tornò alla deviazione, imboccando l’altro passaggio. Le radici incontrate fino a quel momento sparirono, solo qualche macigno interrompeva l’omogeneità della terra.
Percepì un cambiamento nella temperatura quando la galleria si fece più alta e larga, le pareti compatte e lisce, come se la terra fosse stata colpita con il piatto di una pala.
Dopo l’ennesima svolta trovò numerose impronte di piedi sul terreno, tutte rivolte nella stessa direzione: delle persone erano passate da lì, affiancate in ordine di quattro, come un plotone militare. Non erano gli unici segni lasciati sulla terra, un’altra serie d’impronte camminava vicino alle pareti: avevano la forma di piccoli fori, come se tante lance acuminate fossero state appoggiate al suolo. Le tracce erano più fonde e ravvicinate di quelle degli uomini, la conformazione simile a quella degli insetti, ma, stando alla loro grandezza, dovevano essere creature della stessa altezza di un umano.
Con la luce della sfera che apriva il cammino s’addentrò sempre più nella terra. La presenza di rocce aumentò, andando a costituire completamente la formazione del tunnel e rendendo l’ambiente meno umido. In mezzo alla dura pista trovò un braccialetto di fili colorati.
Tenne l’oggetto disteso sul palmo della mano, aspettando che gli venisse mostrata la visuale avuta dalla persona che l’aveva indossato: doveva solo agganciare l’ombra d’energia psichica inscritta in esso e vedere, anzi rivivere, quanto accaduto alla persona che l’aveva posseduto.
I minuti passarono senza che accadesse qualcosa.
Provò a passare le dita sul tessuto, a tenerlo serrato tra le mani: qualsiasi cosa facesse non risvegliava la visuale custodita nel bracciale.
“Perché la prima volta la visione è giunta senza neanche pensarci?”
Stava per abbandonare i tentativi quando le immagini arrivarono come un torrente in piena.
L’illuminazione della galleria era soffusa, rischiarando l’area quel tanto che bastava per seguire l’irregolare corridoio di pietra. Figure lo precedevano, serrate in ordine compatto, poco più d’ombre con qualche accenno di lineamenti umani. Accanto a sé sentiva il calore del corpo di chi lo affiancava e il rumore dello sfregamento degli abiti. Nessun gemito o imprecazione si levava dalla massa: solo il ritmico alzarsi e abbassarsi dei loro passi e lo snervante zampettare di chi li sorvegliava. Erano sempre accanto a loro, una presenza costante, pronti a castigarli qualora contravvenissero agli ordini.
Con lo sguardo fisso davanti a sé non si azzardava a volgere il capo di lato: il timore di essere punito, come già era accaduto ad alcuni, era troppo grande.
La luce aumentò un poco, riuscendo a vedere con maggiore chiarezza la linea degli individui che lo precedevano. Con il cuore che accelerava i battiti e la sudorazione che si faceva più copiosa, si sporse un poco in avanti, guardando oltre le persone al suo fianco: riuscì a scorgere una forma della grandezza di un pony, il corpo snodato terminante con un aculeo; una serie di zampe sottili e scattanti si muoveva senza difficoltà. Un brusco movimento dell’essere e un suo repentino dietro front lo costrinsero a tornare nella sua posizione.
Reinor si trovò di nuovo avvolto nella chiara luce della sfera, il piccolo oggetto tra le mani.
S’affrettò a riprendere il cammino, continuando la discesa nelle viscere della terra.