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Principessa Mononoke

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Principessa MononokePrincipessa Mononoke è un film del 1997 di Hayao Miyazaki ambientato nel periodo Muromachi, che, tra mito e realtà, ruota attorno alla lotta tra uomo e natura. Da una parte c’è la città Tataraba, guidata da Lady Eboshi, un centro proto-siderurgico che produce nuove armi da fuoco ed estrae enormi quantità di ferro dalla montagna. Dall’altra San, la principessa spettro o principessa degli spiriti vendicativi, allevata da Moro, una grande lupa che può essere considerata una divinità della foresta, che combatte a fianco degli animali per fermare la distruzione che portano gli uomini per ottenere le risorse della natura. In mezzo Ashitaka, in viaggio per trovare un rimedio alla maledizione che l’ha colpito e lo sta portando alla morte dopo che ha ucciso un grande cinghiale, un dio maligno proveniente dalla foresta di San e sorto a causa delle azioni degli abitanti di Tataraba.
Proprio quest’ultimo si troverà a essere anello di congiunzione tra due mondi agli antipodi e in lotta tra loro. Ospitato dalla gente di Tataraba (ed entrato nelle loro simpatie) dopo aver salvato un paio di guardie dirette verso la città, s’innamora di San e da lei viene salvato, trovandosi coinvolto in una lotta tra la preservazione della natura e il suo rispetto, e il desiderio di accumulare ricchezze.
Visivamente spettacolare, con i paesaggi ispirati alle foreste di Yakushima, trae ispirazione, oltre che dal periodo Muromachi, anche da quello Jōmon e dalla popolazione degli Emishi. Un film che vuol mostrare l’incompatibilità tra il mondo della natura e l’avanzare della civilizzazione industriale moderna, dove è facile stare dalla parte della natura, ma dove si riesce anche a comprendere la parte degli uomini che fanno quello che possono per sopravvivere, per non essere schiacciati ed emarginati dalla macchina economica che sempre più prende piede e s’ingrandisce. Lady Eboshi, che appare fredda, calcolatrice e spietata nei confronti degli animali della foresta, è invece molto protettiva e comprensiva verso gli abitanti della sua città, e si preoccupa che abbiano di che sfamarsi e condurre un’esistenza dignitosa.
D’altro canto è ugualmente comprensibile la rabbia degli animali, uccisi e con le loro case distrutte a causa dell’ingordigia umana, non riuscendo assolutamente a comprendere il loro modo di agire.
Se si riescono a comprendere queste due parti, risulta invece difficile, se non impossibile, provare empatia per il monaco Jiko, Lord Asano e i suoi uomini, mossi solamente da cupidigia e ingordigia: il primo ha il compito di portare all’imperatore la testa del Dio Bestia (che si dice rende immortali), il secondo vuole allungare le proprie grinfie sulla città di Tataraba; entrambi sono esempi lampanti dell’ottusità e della stupidità umana.
Più violento e crudo degli altri film di Miyazaki (si vedono arti e teste mozzati), Principessa Mononoke vuole mostrare un’epoca di caos e cambiamento, con il mito che lascia il posto a un’era dove rimane poco di un passato magico. Un film non immediato come altri lavori del regista, di più difficile comprensione per chi non conosce l’antica tradizione e cultura giapponese con le sue credenze in spiriti, dei, creature varie e maledizioni, ma il tratto di Miyazaki, sia nella regia, sia nei disegni, rimane inconfondibile; manca la parte inerente al volo (elemento fortemente presente in altre opere), ma è facile per chi ha visto Nausicaa della Valle del Vento notare somiglianze nella foresta in cui Ashitaka entra per la prima volta e la foresta sotterranea in cui Nausicaa finisce quando scampa all’attacco degli insetti. Come per altri film di questo regista, la visione di questa pellicola è consigliata.

Nausicaä della Valle del Vento

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Nausicaä della Valle del VentoNausicaä della Valle del Vento è una delle opere più famose di Hayao Miyazaki, realizzata sia come manga sia come film d’animazione. Come spesso succede negli adattamenti tra cartaceo e pellicola ci sono delle differenze e delle semplificazioni, ma questo non toglie bontà alla versione cinematografica.
Realizzato nel 1984, il film mantiene tuttora un apparato grafico bello e godibile, con il tratto dei disegni che ben caratterizza le opere di Miyazaki: i lineamenti dei personaggi sono facilmente riconoscibili in quasi tutti i suoi film. Così come lo sono le tematiche: l’amore e il rispetto per la natura, la civiltà che la rovina e porta distruzione, il desiderio di potere dell’uomo, il volo, i bellissimi paesaggi dove dominano le nuvole.
La storia e l’ambientazione create da Miyazaki sono di grande impatto. Si è in un mondo devastato da una spaventosa guerra termonucleare: sono passati mille anni da questo spaventoso evento e la terra non si è ancora ripresa. Poche sono le aree dove le persone possono vivere senza essere uccise dalle spore velenose emesse dalle piante della Giungla Tossica in continua espansione, abitata da giganteschi insetti. I resti della popolazione umana vivono in un precario equilibrio, rotto quando dei regni rivali, Tolmechia e Pejite, scatenano un nuovo conflitto per il possesso di un residuo dell’antica tecnologia passata: un Soldato Titano, uno degli esseri che ha portato l’umanità vicina all’annientamento totale e che vuole essere usato per distruggere la Giungla Tossica, senza comprendere qual è la sua reale importanza. Solo un piccolo gruppo di persone guidato da Nausicaa, una ragazzina della Valle del Vento con la capacità di comunicare con gli animali, conosce la verità e cerca d’evitare la catastrofe, lottando contro la cecità e l’ottusità umana.
Il film è stato uno dei precursori che ha mostrato come i cartoni animati possono essere un mezzo per parlare dell’attualità e dei suoi problemi. I suoi messaggi antimilitaristici, della comprensione del prossimo, dell’accettare culture differenti, del degrado che l’uomo porta alla natura, sono evidenti, come anche è evidente il messaggio cristologico finale, dove alle volte si necessita di un sacrificio per far giungere le persone alla comprensione. Qualcuno ha obiettato che questi messaggi sono anche troppo evidenti e calcati, ormai semplicistici, eppure è un punto di vista che non rende giustizia a un film veramente buono: troppo abituata a produzioni dove la violenza e il cinismo regnano sovrani (e spesso sono gratuiti e ci si compiace di usarli), la maggior parte delle persone non riesce ad apprezzare una storia di grande impatto. Memorabili alcune scene: una nave volante che si schianta nella Valle del Vento dopo essere attaccata da centinaia d’insetti, Nausicaa che libera dalle catene una ragazza in punto di morte, i Soldati Titani che devastano il mondo.
Il film è stato fonte d’ispirazione per altre pellicole, ma anche videogiochi, su tutti la serie di Final Fantasy, dove i chocobo, animali che fungono da cavalcature e praticamente presenti in ogni titolo della serie, sono ispirate a una creatura di Nausicaä della Valle del Vento. In Final Fantasy VII, le Weapon, gigantesche creature che fungono da guardiani del mondo e si risvegliano quando l’uomo scatena certe forze, si rifanno al fatto che gli animali della pellicola si scatenano contro gli umani quando compiono atti aggressivi nei confronti della natura.
Una pellicola da non perdere.

Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento

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Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento è un film d’animazione scritto da Hayao Miyazaki che parla di piccole cose. Questo non vuole essere un doppio senso in riferimento alla statura di alcuni dei protagonisti, quanto piuttosto alla semplicità delle azioni mostrate, al dare valore alle piccole cose.
Si tratta di una storia semplice, che racconta la quotidianità di una famiglia di Prendimprestito (una sorta di umani non più grandi di una mano) che vive sotto il pavimento di una casa ai margini del bosco. Un’esistenza abbastanza tranquilla, basata su quello che riescono a prendere in prestito dalle persone che vivono sopra di loro, attenti a non farsi mai scoprire, perché da essa dipende la loro sopravvivenza. Una sopravvivenza non certo facile alle volte, visto che anche un grillo o un topo possono essere una minaccia, dove la segretezza e la prudenza sono le armi migliori per proteggersi.
Armi che però sviluppano la diffidenza, portano a chiudersi, a non aprirsi verso gli altri, la vita, chi è diverso, vivendo nel sospetto. Un modo di vivere che spesso è quello degli adulti e che condiziona quello delle generazioni più giovani, trasmettendogli le loro ansie, le loro paure, facendo indurire il cuore.
Ma non si possono sempre chiudere le porte al proprio animo, perché altrimenti l’esistenza diventa qualcosa di sterile, privo di significato. Non è un caso, come spesso ha fatto Miyazaki nelle sue opere, che tale apertura sia effettuata da giovani e anziani: i primi perché possiedono ancora l’innocenza dei bambini, i secondi perché hanno fatto esperienza dall’esistenza e hanno imparato che certi comportamenti e atteggiamenti non servono a nulla e la vita va presa diversamente, con più leggerezza, senza dimenticare la concretezza. Un’apertura che fa capire che è possibile il dialogo e il confronto con culture e società differenti, anche se ci sarà sempre chi vorrà prevaricare, imporre e soprattutto tentare di possedere, come se gli altri fossero oggetti da sfruttare per avere un guadagno: atteggiamenti che possono solo rovinare ogni cosa.
In questa società, dove conta solo il guadagno e l’accumulo, tutto ciò si verifica molto spesso. Ma è sbagliato pensare che sia l’unico modo possibile di vivere, come dimostra la scena finale del film, che vuol essere molto di più di un ritorno alla natura: è un’esortazione a non continuare ad alimentare il consumismo, ma cercare di vivere più semplicemente, imparando ad ascoltare non solo la natura, ma soprattutto se stessi.

Kiki consegne a domicilio

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La delicatezza e la leggerezza sono un marchio di fabbrica di Hayao Miyazaki: ogni sua opera ne è caratterizzata. Kiki consegne a domicilio non fa eccezione.
Racconto di formazione e iniziazione, Miyazaki mostra il viaggio verso l’indipendenza di Kiki, strega tredicenne che lascia la casa natale per cominciare l’anno di apprendistato come è tradizione. In un ambiente nuovo, senza conoscere nessuno, contando solo sulle sue forze e sull’appoggio del gatto nero Gigi, la giovane comincia a muovere i primi passi verso la maturazione e la scoperta del mondo; la magia a cui può fare ricorso non è il potere sorprendente degli incantesimi o delle evocazioni, non è il moto risolutivo di ogni problema, ma è limitato alla capacità di volare su una scopa, che, grazie a una coincidenza e a un piccolo colpo di genio, sfrutta a proprio favore, facendolo divenire un lavoro con cui mantenersi.
Anche qui, il volo (sia esso magico, naturale o meccanico), come in molte opere di Miyazaki, con il senso di meraviglia e di libertà che è capace di far provare, ha una parte rilevante: tutti i personaggi, rivolgono lo sguardo al cielo quando vedono qualcosa librarsi nell’aria al di sopra delle loro teste, estasiati e assorti, come se fossero in contemplazione.
Questo, unito alla presenza costante degli animali e della natura, alla cortesia, al rispetto e alla gentilezza verso gli altri, specialmente i più anziani e bisognosi di aiuto, rendono questo film d’animazione un capolavoro di poesia, capace di sollevare il cuore e lasciare un senso di buono in chi lo guarda, una speranza e positività verso la vita che non è sempre facile trovare, specie nei periodi di difficoltà: è come se il consiglio di sorridere dato dalla madre di Kiki alla figlia non sia rivolto solo a lei, ma a chiunque guardi il film e lo esordi a non lasciarsi andare e farsi prendere da grigi pensieri, affrontando la vita con serenità e apertura verso ciò che sta venendo incontro.

Il Castello nel Cielo

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Ci sono voluti ventisei anni perché Il Castello nel Cielo (Tenku no shiro Rapyuta) di Hayao Miyazaki giungesse in Italia. Un’attesa inspiegabile (o forse sì, visto il paese in cui si vive) per un vero e proprio capolavoro cinematografico.
Una storia densa, ricca di significati e di poesia, realizzata con un tratto semplice, ma dettagliato, il marchio caratteristico che ha reso Miyazaki conosciuto in tutto il mondo da quando ha realizzato Heidi, Anna dai capelli rossi e Conan, il ragazzo del futuro. Come lo ha reso conosciuto il suo amore per la natura, sempre così presente nelle sue opere: un tema che mai ha annoiato, ha sempre avuto qualcosa da insegnare, soprattutto sul rispetto e sulla libertà.
Troppo spesso gli uomini con la loro arroganza, la loro sete di dominio hanno portato rovina e sciagura: troppo presi da loro stessi, dai fini mossi per alimentare il loro ego, non hanno fatto altro che guardare gli altri dall’alto al basso, come viene ben mostrato da Muska, sprezzante e insensibile, concentrato solo sul potere. Mai una volta il suo sguardo si leva a guardare il cielo per rendersi conto di quanto grande e meraviglioso è il creato, di quanti segreti e maraviglie abbia da far scoprire: accecato dal volere tutto sotto il suo dominio e controllo, non riesce a cogliere quale sia la vera ricchezza, come invece avevano fatto i creatori di Laputa, arrivati a comprendere che per quanto possa essere avanzata la tecnologia umana, niente più eguagliare la bellezza e complessità della natura. Poetica e commovente la scena in cui il robot, dopo l’atterraggio di Pazu e Sheeta sul castello volante, sopraggiunge per spostare il deltaplano dal nido di uccellini nascosto in mezzo all’erba: da creature capaci di distruggere da soli un’intera armata, non ci si aspetterebbe una simile delicatezza. Ma è proprio questo contrasto che va riflettere: se macchinari di simile potenza distruttiva riescono a provare sentimenti, a sviluppare affetto verso i fiori e gli animali, perché non dovrebbe riuscirci anche l’uomo?
Perché purtroppo ha perso la capacità di stupirsi, d’apprezzare le cose semplici, di sognare. E’ proprio la mancanza di sogni che l’ha abbruttito in questa maniera: non bastasse questo, c’è pure il disprezzo verso chi ancora crede in essi, sapendo che rendono la vita più ricca, come accade al padre di Pazu, deriso e ritenuto pazzo per avere creduto in quello che in molti ritenevano una leggenda. La gente, troppo presa dalla materialità, dal profitto, dall’economia, non ha più quel senso di meraviglia che si dipinge sul volto dei ragazzi quando fanno l’esperienza del volo, quando sono sulla macchina volante dei pirati e si ritrovano a fissare candide montagne di nubi.
Quanti al giorno d’oggi alzano gli occhi al cielo e si soffermano a osservarle? Quanti riescono a essere ammaliati dalle loro forme, dal loro mutare capace di rapire la mente? Quanti sono ancora in grado di provare il desiderio di volare, di solcare i venti lasciandosi trasportare dalle correnti, liberi come uccelli e lasciar spaziare lo sguardo su orizzonti sempre più vasti?
Solo chi ha saputo immergersi nella natura, allontanandosi dai ritmi forsennati imposti dal sistema, mettendosi in ascolto e sapendo osservare, soffermandosi sui piccoli dettagli di un prato, di un bosco, ascoltando il canto del vento e degli uccelli, rimirando il solcare in cielo delle nubi, riesce a cogliere la delicatezza e la profondità dell’esistenza, dandole il giusto rispetto che merita. Una capacità che è di tutti gli uomini, ma che è andata perduta crescendo, perché davvero in troppi si sono dimenticati che cosa significa essere bambini, che cosa si prova a lasciar andare la mente a librarsi in alto, nel cielo, spiegando le ali e facendosi trasportare dal vento della libertà.
Un modo per prendere le distanze da un’epoca che va giudicata mancante, rifiutando l’egoismo e gli interessi economici di cui è stata solo capace d’occuparsi.

Libertà Condizionata

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La libertà è un valore importante, attorno al quale ruota l’essere di ogni individuo; senza di essa la vita perde sapore, alle volte divenendo insipida, alle volte amara. Gli individui si credono liberi, ma chi si può dire realmente libero? Tutto condiziona o tenta di condizionare: famiglia, amicizia, media, istituzioni. Una persona potrà dirsi libera quando sarà semplicemente se stessa, senza dipendere da giudizi esterni, seguendo il proprio essere, una forma di rispetto sia per ciò che è, sia per gli altri.
Questo discorso è molto ampio da affrontare, ma voglio soffermarmi su una sua parte: la libertà artistica. Può riguardare la scrittura, la musica, la pittura: l’arte ha molte forme per manifestarsi. Un artista dovrebbe essere libero di esprimere la creatività che lo permea, senza briglie, senza confini. Certo va modellata, perfezionata, curata, ma va lasciata scorrere liberamente. Spesso si sente parlare di censure, di limitazioni, dove l’arte viene piegata a interessi economici o politici; così è anche per l’informazione, come spesso le cronache quotidiane riportano. Non è un male solo del paese in cui viviamo, esistono altre nazioni con questo problema, dove molti artisti criticano questa limitazione alla libertà, perché impoverisce, toglie nutrimento. E si sa che se a una pianta questo viene a mancare, può andare incontro solo a un triste destino.
Ormai si conosce, non è solo di adesso, cosa ha comportato un sistema basato solo sul guadagno sfrenato: uno snaturamento dell’essere umano, a partire dal rapportarsi con gli altri e con se stessi, allontanandosi dal centro dell’esistenza. Questo ha comportato danni (il numero di patologie fisiche e psichiche è sempre in aumento) non solo agli esseri umani, ma anche all’ambiente: la perdita di rispetto ha colpito duramente la natura. Forte è il messaggio che arriva da autori come Hayao Miyazaki, che spesso nelle suo opere ha mostrato la relazione dell’uomo con la natura e la dimensione spirituale.
Parlo di Miyazaki perché ricercando notizie su di lui sono arrivato a questo: Intervista a Dai Sato. Un articolo interessante, sul quale mi voglio soffermare su due punti, anche se ci sarebbe tanto di cui discutere.
“Purtroppo credo che i fan stiano perdendo la propria alfabetizzazione sui media, l’abilità di leggere la narrativa e le storie, d’intuirne i significati nascosti tra le righe, e persino la curiosità d’interrogarsi su di essi”…Sato si è cimentato in un dibattito piuttosto spinoso per quanto riguarda il ruolo delle storie all’interno degli anime giapponesi, dolendosi del fatto che i propri lavori siano stati etichettati come “difficili” (muzukashii-kei), all’opposto di quelli di “blanda atmosfera” (kuuki-kei): nei titoli kuuki-kei non accade mai nulla di rilevante, non esiste alcun sviluppo narrativo, nessuna trama significativa. Sono opere che tendono a focalizzarsi su personaggi carini o moe, riuscendo ad essere molto popolari tra i fan di quest’ultimo genere.
Un fattore che si sta vedendo anche nella letteratura occidentale; fare un paragone tra manga e libri non è proponibile, dato che si tratta di due cose differenti, ma questo per far capire che manga e anime hanno in Giappone la stessa diffusione che in occidente hanno romanzi e film, e che stanno risentendo : basare tutto sull’apparire, senza ricercare la profondità. Spesso ci si lamenta di trame piatte o banali, superficiali: pochi sono i prodotti che si discostano da questa linea. Ma se è vero che il mercato produce questo, è altrettanto vero che è il pubblico a volerlo.
“Nessuno vuole saperne di conoscere i NEET, o disoccupati. Piuttosto, tutti preferiscono guardare un gruppo di studentesse liceali che creano un complesso musicale e si chiedono “come si suona questa nota?”
Non è forse quello che succede nei paesi occidentali, dove vanno per la maggiore certe tipologie di libri o serie televisive? Non che questo sia di per sé un male; lo diventa se diventa solo ciò che si vuole.
“Se stiamo sempre a fuggire dalla realtà e dai suoi problemi, quando mai li affronteremo?”
Il divertimento, l’avere storie per alleggerire i pensieri, servono ma non si può basarsi solo su queste cose. Le storie, perché questo sono manga, libri, film, devono essere anche mezzi per mostrare la realtà e farne avere consapevolezza. I mondi, reali o immaginari, hanno il compito di far apprendere: non devono essere privati di questo scopo. Pare che tutto ciò adesso sia messo da parte. Ne parla Shuho Sato, rivelando il mondo che si nasconde dietro alle pubblicazioni dei manga.
Spesso si pensa che chi pubblica un libro abbia grandi guadagni: così non è. Spesso invece deve fare dei compromessi o adattarsi a regole poco gradevoli, come ad esempio adattare le tematiche delle proprie storie all’onda del mercato: così o restarne fuori. Oppure fare come Shuto Sato di distribuire i propri lavori via web, per dissociarsi dal complesso editoriale ritenuto fondato su pratiche poco etiche e disoneste nonché poco rispettose della dignità degli autori.
La creatività non può e non deve essere condizionata, come non si può rinunciare alla dignità e alla libertà; farlo significherebbe rinnegare se stessi. Ma vale davvero la pena farlo per restare in un sistema che non guarda in faccia a niente e nessuno?

Bisogno

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Alle volte è difficile poter spiegare l’avvertire dentro di sè un vuoto che non dà tregua, che non fa vivere e apprezzare appieno quanto l’esistenza ha da proporre. Una mancanza che rende inquieti, insoddisfatti, sempre in cerca di qualcosa che lo possa colmare. Una mancanza che spesso ha origini in ambito familiare, una ferita che si subisce nell’infanzia o in giovane età e che può segnare tutta la vita; una ferita che può essere curata, ma mai guarita, che può continuare a sanguinare senza posa, come figurativamente viene mostrato nell’anime Kenshin, Samurai Vagabondo – Memorie del Passato. Una ferita che finchè non si sarà risolta e dissolta la causa che l’ha generata non potrà essere rimarginata.
Da dove nasce tale bisogno?
Spesso dal sentirisi isolati, emarginati, avvertendo la necessità d’essere accettati, di venir riconosciuti dagli altri: si sente la spinta d’essere importanti per qualcuno, vedendo l’altra persona come chi è capace di dissolvere quel vuoto, quel senso d’incompletezza e abbandono che s’avverte interiormente. Alle volte basta un gesto gentile per vedere una persona come un salvatore, un’ancora cui aggrapparsi per non sprofondare e si è disposti a tutto pur di non lasciarla andare.
Spesso però si utilizza il modo sbagliato, si arriva ad umiliarsi, a strisciare, facendo di tutto per avere il consenso, l’approvazione, l’attenzione di chi si vede come la risoluzione del proprio stato interiore. Si cambia la propria natura, la si stravolge, pur di non perdere ciò che è tanto importante.
Ma facendo così non si è altro che un’ombra di ciò che si dovrebbe essere: una forma indefinita, senza fattezze, come viene mostrato da Senza Volto della Città Incantata di Hayao Miyazaki, una figura ombrosa che porta una maschera perchè non ha un viso che lo caratterizzi e lo distingua, simbolo dell’annullarsi per compiacere gli altri; un modo per far capire che chiunque può essere così.
Queste persone si mettono a disposizione degli altri, cercando di soddisfare le loro necessità, dando a chi hanno vicino quello di cui in quel momento stanno ricercando (come succede con Chihiro quando nei bagni ha bisogno di un pass per i sali o quando gli altri inservienti ricercano oro). Un modo all’apparenza altruistico e generoso, ma sbagliato perché è un mendicare, perché così facendo si cerca di comprare l’affetto altrui, ma è soltanto uno sfruttamento reciproco, un fare per avere, non qualcosa di spontaneo e gratuito: non ci sono veri sentimenti, ma solo tornaconti personali.
E questo genere di rapporti sono portati a dare un sollievo solo momentaneo che si sviluppa poi in attaccamento, a non aver mai a sufficienza di quanto viene dato. Il vuoto che si prova s’acuisce e si cerca di colmarlo con cose materiali, come il cibo (in questo casi si sviluppano casi come la bulimia) o l’accumulo d’oggetti (come succede nello shopping compulsivo), ma non basta mai ed è a questo punto che possono scaturire vere e proprie ossessioni, portando a sviluppare comportamenti morbosi verso gli altri che ne limitano la libertà, ne risucchiano l’energia soffocandoli o inglobandoli (nel film d’animazione di Miyazaki alcuni personaggi vengono fagocitati all’interno di Senza Volto mutato in una sorta di ragno, simbolo di voracità e di non aver mai abbastanza di nulla, ma nella realtà questo va inteso come un togliere ogni spazio alle altre persone, cercando d’annullare la loro libertà perché siano soltanto a propria disposizione, soddisfacendo i propri bisogni e mancanze).
Questa è la dipendenza, l’appoggiarsi e l’aspettare che gli altri risolvano i propri problemi. Un atteggiamento sbagliato, certo, ed è compito dell’individuo risolvere lo stato in cui si trova, dato che ha una parte di responsabilità nel non essersi accorto di certi comportamenti e averli lasciati sviluppare.
Ma ancora una volta c’è da chiedersi qual è la causa di questo malessere.
E ancora una volta la risposta è la società, l’ambiente che circonda l’individuo. Una società con i suoi vizi e le sue manie, un costrutto alimentato dai singoli, generatore di malattie che inquinano lo spirito di tutti quelli che tocca.