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Per Chi Suona la Campana

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E dunque non chiedere mai
per chi suona la campana.
Essa suona per te

E’ il pezzo di John Donne tratta da Nessun uomo è un’isola che compare all’inizio del famoso romanzo di Ernest Hemingway, Per chi suona la Campana, una perla di saggezza che mostra come non ci siano certezze nella vita, come tutto è mutevole; nemmeno la persona più saggia può sapere che cosa lo attende nel domani, tutte le conseguenze che comportano le sue azioni. La vita è una complessa equazione formata da infinite variabili che non fanno che cambiarla continuamente: tutti hanno influenza, non c’è niente di stabile e duraturo, soltanto la morte è immutabile.
Un romanzo che parla della lotta contro il regime franchista, contro l’oppressione e la riduzione della libertà, un libro dove i personaggi piuttosto che sottomettersi o cadere in mani nemiche preferiscono la morte. Una ribellione contro chi opprime, sapendo che per cambiare le cose occorre darsi da fare, anche a costo di effettuare sacrifici.
E’ quanto sta succedendo in Spagna con la protesta degli Indignados, per lo più giovani che stanno protestando contro un mondo del lavoro che non gli dà né spazio né dignità; un mondo fatto di precarietà e sfruttamento, dove le persone devono adattarsi a qualsiasi richiesta, accontentandosi di stipendi al di sotto delle loro qualifiche, accettando di tutto perché sono tanti gli individui nelle stesse condizioni che possono prendere un posto lavorativo al momento disponibile.
Un mondo egoistico che bada all’interesse di pochi, dove non si cerca di salvaguardare il bene collettivo, l’identità e la dignità dell’individuo.
Il problema non è solo della Spagna, lo è anche dell’Italia: non è possibile pensare d’essere un paese civile dove pochi s’arricchiscono e tanti sono costretti a subire vivendo nell’instabilità, con l’unica certezza d’essere un numero che può essere sfruttato come e quando si vuole perché in un qualche modo si deve sopravvivere.
Il tasso di disoccupazione nel nostro paese è molto alto, più di due milioni di persone senza lavoro (in questo numero però non sono contemplati i cassa integrati cronici che non rientreranno più nelle aziende o le persone che non hanno speranza di trovare un’occupazione e che non sono certificati come disoccupati) e la cosa che allarma in modo grave è che chi deve dare lavoro si preoccupa solamente di avere meno tesse e meno spese, non ha un progetto per il futuro che preveda uno sviluppo, ma solamente la volontà d’arraffare il più possibile sul momento. Per questo non si investe in ricerca, ricercando solamente lavoratori a chiamata, a somministrazione, a tempo determinato: le ditte non assumono più direttamente, si rivolgono alle società interinali per effettuare assunzioni dove la professionalità non viene riconosciuta e vengono proposti contratti con salari e qualifiche al di sotto della professionalità posseduta, perché se si è disoccupati per lavorare si deve accettare di tutto. Assunzioni che sono solo contratti a tempo determinato e che non si tramutano mai in tempo indeterminato.
L’arroganza delle imprese è molta: se si vuole lavorare si devono accettare le condizioni imposte. E’ facile in simili situazioni fare i forti e i prepotenti, ma anche la gente accettando tutto ciò permette che questo sistema continui a esistere: se tutti fossero uniti nel dire no, nell’opporsi a queste ingiustizie, le cose cambierebbero. Ma così non si fa, perché questo è il sistema e bisogna adattarsi per vivere, bisogna guadagnare per tirare avanti: ma la dignità non può essere comprata e se non si cerca di cambiare lo stato delle cose finché si è in tempo, le cose andranno sempre male e anzi peggioreranno.
Chi ha un lavoro, i dirigenti, non si preoccupano né si pongono il problema di chi versa in condizioni di precarietà: ma chi dice che chi si trova un giorno in una certa posizione, il giorno dopo sia sempre nello stesso punto? O invece si ritrovi in una posizione capovolta?
Davvero non si riesce a capire che questo modo di fare non solo angustia, demoralizza e fa morire interiormente un poco ogni giorno gli individui, ma uccide il sistema, facendo collassare tutto quello costruito finora e alla fine non ci sarà niente per nessuno?
Perché con questi presupposti non si può avere il mantenimento per costruire una famiglia, mettere al mondo figli o avere una semplice vita di coppia. E un popolo in cui non nascono nuove generazioni è un popolo in via d’estinzione.
Ancora di più se il sistema di quel popolo invece di aiutare le donne incinta, le colpisce duramente togliendogli ogni tutela e facendogli perdere il lavoro.

Il Vecchio e il Mare

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Il Vecchio e il Mare, un romanzo di Ernest Hemingway. E’ la storia di un pescatore a cui la fortuna ha voltato le spalle: le pesche sono infruttuose da lungo tempo. La gente del villaggio, vedendolo in difficoltà, se ne sta alla larga, timorosa che la sfortuna le si attacchi; l’unico che ha simpatia di lui è un ragazzo, ancora incontaminato dalla mentalità dei grandi. Superstizione. Pregiudizi. O più semplicemente fastidio per chi versa in cattive condizioni, timorosi che l’altro possa chiedere un aiuto.
Sembra quasi che nei momenti di difficoltà le persone se ne stiano alla larga perché i guai del malcapitato non li seguano. Si è evitati, messi da parte, la sola presenza un fastidio. La storia è un modo per mostrare che nelle difficoltà si è isolati, anche avendo qualcuno vicino, perché le difficoltà debbono essere affrontate da soli, nessuno può superarle al posto nostro.
Questa è una delle realtà dell’esistenza, quanto il romanzo ha detto a me; faccio questa premessa per rispetto all’autore, che per sua natura non amava che si cercassero simbologie nei suoi libri. Ciò che voglio non è ricercare allegorie, ma semplicemente mostrare a ciò che il romanzo mi ha fatto pensare: un esempio da seguire.
Il pescatore è l’uomo, rappresenta ogni individuo, chiunque può raffigurarsi in lui perché chiunque ha incontrato difficoltà e periodi duri.
L’oceano è simbolo di vita, da esso si dice che si siano sviluppate le prime forme d’esistenza che hanno dato il via al mondo e alle creature che conosciamo. L’oceano con le sue profondità, gli abissi, i luoghi bui è anche il simbolo della nascita delle creazioni: divine, letterarie, scientifiche.
Il pescatore ogni giorno va nell’oceano a pesca: così è l’uomo che ogni giorno va incontro alla vita. Quella vita capace di fare doni (il pesce spada), ma anche di rovinarli e farli perdere (squali), come se alle volte voglia essere chiusa, precludere qualsiasi cosa all’individuo, come se si ostinasse contro di lui.
Il vecchio, oppresso dalle fatiche e dall’età, non si arrende, continua a lottare, convinto che le cose non possono andare male per sempre, che quello che serve è solo tenere duro un altro po’. Questa è la lotta con il pesce, rappresentazione del duro periodo in cui è, deciso a non lasciarsi sopraffare. Il vecchio è l’uomo che fa, che lotta. E alla fine ce la fa, ne esce vincitore: il pesce spada, la difficoltà, non l’ha avuta vinta.
Ma le vittorie sono effimere e ci sono sempre squali pronti ad accanirsi e a distruggere, a sfruttare il periodo di debolezza, rovinando impegno e volontà, lasciando con nulla in mano; lasciando sconfitti.
Così è alle volte la vita: ingiusta, crudele.
E allora sorge una domanda.
Vincere, perdere: che differenza fa?
Tutto passa, tutto è mutevole; niente è per sempre, tutto è cambiamento.
E allora perché darsi tanto da fare, se alla fine, in qualsiasi caso, non si ha nulla in mano?
Per non rinnegare se stessi; per non arrendersi. Perché la vita è anche lotta, una lotta che merita di essere affrontata. Non conta il risultato, non conta ottenere riconoscimenti: conta essere.
E il pescatore è stato l’uomo che non ha mollato.
Una storia triste, ma anche di speranza, un invito a non mollare perché il fato, il destino, la malasorte (chiamatelo come volete) può anche uccidere una persona, ma non avere la meglio su di lei.
Perché non mollare è ciò che conta: il non arrendersi è LA vittoria.