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Casi mediatici

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Quanto è successo a Giulia Cecchettin è grave, come lo sono tutti i femminici accaduti, ma va osservato che è divenuto uno dei tanti casi mediatici su cui per un certo periodo si focalizza l’attenzione pubblica. Il risalto che sta avendo questo omicidio è elevato e per questo viene da domandarsi il motivo di tutta questa attenzione: non bisognerebbe darlo a tutte le donne che vengono uccise? Invece molte volte si ha un breve articolo, una notizia di un paio di minuti sui tg e basta. Questi omicidi non meriterebbero di essere anche loro casi mediatici? Non meriterebbero di essere casi mediatici anche tutte le morti sul lavoro?
Invece, un risalto come il caso Cecchettin non viene dato alle quasi 700 vittime sul lavoro: una notizia veloce e via, si diventa un numero presto dimenticato. Si viene lanciati nell’oblio e poco ci manca che si dica “Vabbè, cose che capitano, uno s****o di meno, tanto ce n’è un altro che può prendere il suo posto.” Però i lavoratori non sono solo un numero, non sono carne da macello: hanno amici, famiglia, sogni e quando muoiono tutto gli viene portato via. Il mondo che rappresentano, fatto di pensieri, idee, sentimenti svanisce. E cinque minuti dopo che la loro esistenza è finita, nessuno ne parla più. Invece l’omicidio di una giovane donna, una purtroppo delle tante uccise da “chi le amava” (l’ottantunenne uccisa in garage non era donna anche lei? Non lo erano anche le altre giovani come Giliua? Non lo erano quelle donne che hanno lasciato bambini piccoli causa un marito o ex marito violento? Non meritavano anche loro di continuare a vivere?), ha un risalto mediatico gigante. Questo non è giusto.
Come non sono giuste certe dichiarazioni che ha fatto la sorella, soprattutto quella in chi asserisce in cui “Tutti gli uomini devono fare mea culpa.”; è comprensibile, visto il dolore della perdita dire certe parole, ma mettere praticamente tutti gli uomini allo stesso livello di chi compie certe azioni è sbagliato, sta passando il messaggio di “Tutti gli uomini sono colpevoli.” A parte che ci si può domandare se tali dichiarazioni sono diffamazione, se si cominciano a fare queste generalizzazioni, si rischia poi di farla anche con le donne, basta guardare certi video per poi dare giudizi come quelli fattti in questo caso.

E se si comincia a generalizzare, si entra in un circola da cui non se ne esce più. (Apro una piccola parentesi. A costo di diventare impopolare, antipatico, arrogante, volendo rispondere alle parole della sorella di Giulia, non ho bisogno di fare un esame di coscienza o mea culpa perché ho la coscienza pulita. Anzi, verrebbe da aggiungere che il mea culpa e l’esame di coscienza dovrebbero farlo certe ragazze e certe donne per come si sono comportate e si comprtano (vedere il video sopra per capire)).
Quello che però ora dobbiamo costatare è che i media italiani vivono di casi mediatici e si vorrebbe capire cosa fa decidere di dare più risalto a una notizia piuttosto che a un’altra. Ora è il momento dell’omicidio Cecchettin e ci si è già dimenticati dei morti per le alluvioni in Toscana ed Emilia Romanga, dei morti tra Israele e Palestina, dei morti della guerra in Ucraina, delle migliaia di morti per Covid… l’elenco di casi mediatici passati è lungo, ma non può essere tutto liquidato, come fanno alcuni, con il fatto che l’essere umano ha la memoria corta e tende a rimuovere quello che non gli serve per l’immediato. Perché se si elimina la memoria, inevitabilmente si cometteranno gli stessi errori.

 

P.s. Amadori ha asserito che l’aggressività è anche femminile. Ma ora, dopo il caso Cecchettin, se non ci si allinea con il pensiero che la violenza appartiene solo all’uomo, si viene criticati. Circa tre anni fa esprimevo la mia opinione sulla questione.

Contenuti: tra sensazionalismo e ricerca d'attenzione a tutti i costi.

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In una società sempre di corsa, dove i valori che più contano sono l’apparire, il sensazionalismo e l’avere il maggior seguito possibile, quello che ne risente è la qualità, in tutti gli ambiti. Si approfondisce sempre meno perché per fare un buon lavoro occorre tempo e anche perché le persone, dovendo essere sempre di corsa e volendo fare tante cose, hanno meno tempo da dedicare a quello che fanno. Questo è stato uno dei successi dei social (basti pensare il boom che ha avuto negli ultimi anni Tik Tok), che si basava appunto sull’immediatezza e la velocità dei contenuti per cogliere l’attenzione di chi guarda.
Purtroppo, per avere dei seguiti numerosi si è disposti a tutto, a scadere nella banalità o peggio, con titoli che sono urlati e travisanti: succede sempre più spesso di articoli il cui titolo non corrisponde ai contenuti che propongono. Un esempio? Gli articoli che parlano di calcio, dove per esempio si parla di esonero o un grave infortunio in una grande squadra e si mette un’immagine che fa pensare che si parli del personaggio mostrato; quando si va per leggere la notizia, si scopre che si parla di tutta un’altra cosa e non è quello che il titolo faceva credere.
Si è dinanzi al classico specchio per le allodole. Almeno per quel che mi riguarda, dopo un paio di volte in cui sono andato a leggere la notizia e mi sono accorto di come stavano le cose, ho smesso di prestare attenzione a simili articoli, andando oltre senza perdere tempo in una lettura che ha un modo di fare se si vuole disonesto, perché inganna il lettore e lo fa volontariamente per essere il più seguito possibile.
Ormai ci si abbassa a tutto per avere un alto numero di visualizzazioni, sfruttando qualsiasi cosa. Uno degli ultimi casi che mi viene da citare è quello di cui ha parlato Sommobuta sul suo canale Youtube (canale che suggerisco di seguire anche se non si è amanti dei fumetti, perché Angelo Cavallaro, questo il vero nome di Sommobuta, è una persona intelligente, che fa degli ottimi lavori (mi viene sempre in mente il magnifico documentario che ha fatto su Slam Dunk) e da cui si dovrebbe prendere spunto per la passione e il suo modo di fare che mette nel trattare gli argomenti); quando ho saputo dell’accaduto di cui parla, l’articolo in questione era stato rimosso dal sito Anime Everyeye, postando al suo posto uno di scuse.
Suggerisco di guardare il video realizzato da Angelo perché spiega molto bene la questione:

Come dice Angelo, ormai il mondo è andato in una certa direzione, ma forse non è troppo tardi per fare inversione a U e tornare sui propri passi, cercando magari di sfornare meno articoli, ma realizzare contenuti più qualitativi, evitando di ricercare il sensazionalismo, lo strepitare e volere l’attenzione a tutti i costi.

Attatck on Titan - Escalation finale

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Atatck on TitanAnche la serie anime di Attack on Titan è giunta a conclusione; dopo quattro stagioni (di cui l’ultima divisa in quattro parti), la storia di Eren e dei suoi compagni del Corpo di Ricerca è arrivata alla fine della sua lunga corsa. Perché di lunga corsa proprio si tratta, dato che nel finale, per fermare Eren, i suoi amici si sono lanciati in un inseguimento disperato per evitare che eliminasse l’intera umanità, a parte gli abitanti dell’isola di Paris.
Ma per chi non conoscesse la storia tratta praticamente fedelmente dal manga di Hajime Isayama, un breve riassunto. Eren Jaeger è un ragazzino che vive all’interno di una città difesa da tre gigantesche cinte di mura, che la proteggono da ciò che vive all’esterno, i giganti; Eren non ha mai visto il mondo al di là delle mure e vuole arruolarsi nel Corpo di Ricerca (un gruppo dell’esercito al servizio della città) per scoprire se è vero quello di cui lui e il suo amico Armin Arelet hanno letto sui libri. La sua vita tranquilla viene squarciata quando due giganti mai visti prima sfondano la prima cinta di mura, facendo entrare tutti gli altri giganti; Eren vede la madre divorata da uno di essi e, sopravvissuto alla strage, giura che li sterminerà tutti.
Eren però è all’oscuro di tutto e non sa che pure lui è un gigante, il Gigante d’Attacco, un potere che ha ereditato dal padre, che lo era a sua volta prima di lui. Non solo: Eren dal padre ha anche ereditato il potere del Gigante Fondatore, un gigante capace di comandare tutti gli altri giganti (un potere troppo grande da gestire per un ragazzo; anzi, troppo grande da gestire per chiunque). Eren ha anche un fratello da parte di padre (che vive in un’altra nazione, Marley), che vuole insieme a lui cambiare il destino degli eldiani, il popolo cui appartengono, quello di Ymir, l’origine di tutti i giganti.
Eren scoprirà la verità sulle sue origini e sul perché la sua gente è stata tanto perseguitata; si troverà davanti a un tramandarsi di odio che non conosce fine, a cui si può rimediare solo con lo sterminio di tutti i nemici della città in cui è nato.
Verrà fermato dai suoi amici perché lui gli ha dato la possibilità di fare questa scelta e per un certo lasso di tempo il mondo vivrà nella pace, ma inevitabilmente l’umanità ricadrà nei suoi errori e la guerra di nuovo aprirà le sue ferite sulla terra, con la storia che farà il suo giro e ritornerà allo stesso punto.
Attack on Titan è un’ottima serie, molto ben realizzata (i disegni sono migliori di quelli del manga e in diversi casi rendono il tutto più comprensibile, dato che in alcuni casi nella versione cartacea non era facile distinguere certi personaggi) e si può dire tranquillamente che rende in alcuni punti più comprensibile l’opera di Isayama. Ma qui non si è tanto a parlare del lavoro dell’autore giapponese (ne ho già parlato altrove), quanto questa storia è attuale, soprattutto alla luce di quanto sta succedendo tra israeliani e palestinesi.
E qui occorre fare subito una premessa. Hamas è colpevole. Israele è colpevole. I capi di queste due parti sono colpevoli della carneficina che sta andando avanti da anni, che non solo sta portando morti sui territori dove impazza la guerra, ma sta diffondendo un odio che si sta espandendo in tutte le parti del mondo.
Arrivati a questo punto è difficile capire se ci sono degli innocenti, dove tutti sono colpevoli, tranne quella parte della popolazioni che vorrebbero vivere in pace e che si trovano a pagare per la cultura d’odio voluta e diffusa dai sui governanti, proprio come succede in Attack on Titan; è vero, il popolo di Ymir, il popolo dei giganti, con il suo potere ha per lungo tempo imperversato sulle altre popolazioni, portando soprusi, sangue e sofferenza, ma quando il suo dominio è finito, quello che è venuto dopo non è stato da meno, portando vendetta su chi aveva dominato: persecuzioni, ghettizzazioni, discriminazioni, abusi sono stati all’ordine del giorno. Un odio così radicato che si è diffuso di padre in figlio, che non ha fatto che rinsaldarsi e generare altro odio, in un’escalation che è giunta a causare il tremendo Boato della Terra (migliaia di giganti colossali che marciano sulla terra per sterminare chi è nemico degli eldiani, il popolo di Ymir).
Occore soffermarsi a questo punto sulle colpe dei padri che ricadono sulle spalle dei figli. I marleyani hanno per anni oppresso gli eldiani, dopo a loro volta essere stati oppressi a lungo da questi ultimi, non avendo appreso nulla dalla storia e dagli orrori di cui essa era pervasa, ma ripetendo lo stesso copione; copione che inevitabilmente ha finito per ritorcerglisi contro.
Se il soldato marleyano non avesse massacrato la sorella del padre di Eren, questi non si sarebbe unito alla resistenza per cambiare le cose e ribaltare il governo di Marley; non avrebbe indottrinato il fratello di Eren al punto che si sarebbe ribellato contro di lui, tradendolo e facendolo andare incontro a una una fine orrenda, evitata solo dall’intervento di una persona che gli ha trasmesso il potere del Gigante d’Attacco. Potere e ricordi che suo padre ha poi trasmesso, senza consenso, ad Eren, facendolo essere colui che ha quasi distrutto il mondo.
Quanto di quello che è successo è responsabilità di Eren? E quanta è invece la colpa di chi l’ha preceduto? Il più colpevole è il padre? Il soldato che ha ucciso in modo così brutale la sorella? Oppure è il sistema che ha generato la mentalità e l’odio con il quale è cresciuto il soldato?
Come si vede si è dinanzi a una spirale d’odio senza fine , di cui non si riesce a vederne l’inizio tanto la cosa è divenuta complessa e aggrovigliata.
Lo stesso sta avvenendo in Israele e Palestina. Ma questo conflitto è solo la punta dell’iceberg, perché l’odio ormai da tempo si sta facendo sempre più largo nel mondo, anche dove non ci sono conflitti, basti solo pensare ai tanti omicidi che avvengono in ogni paese. Un’escalation che potrà essere fermata solamente quanto si apriranno gli occhi e si inorridirà di fronte all’orrore che si è creato.
Che piaccia o no la conclusione data da Isayama ad Attack on Titan, questa è la lezione che si dive imparare dal finale di tale storia.

Il castello invisibile

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Il castello invisibileTratto dall’omonimo romanzo, il film Il castello invisibile vede come protagonista Kokoro, una ragazza delle scuole medie che ha smesso di andare a lezione; all’inizio non si riesce a capirne la ragione: viene da pensare che sia malata, che abbia dei problemi di salute, ma sta di fatto che c’è qualcosa che la fa stare male al punto da non riuscire a frequentare la scuola. La madre, preoccupata, le fa frequentare una struttura speciale, L’Aula del Cuore, dove, con l’aiuto della professoressa Kitagima, spera che il problema si risolva.
Kokoro appare come una ragazza introversa, riservata, che non si apre con gli altri, tenendosi tutto dentro; per questo anche i rapporti con i genitori si fanno più difficili. Passa così le giornate a casa, in maniera apatica; ma un giorno, lo specchio in camera sua s’illumina e lei, incuriosita, l’attraversa. Si ritrova davanti a una bambina con una maschera da lupo sul volto e a un castello situato in mezzo al mare; in modo poco ortodosso viene fatta entrare e lì scopre che ci sono altri sei ragazzi che sono stati invitati al castello e che hanno la possibilità, trovando una stanza segreta, d’esaudire un desiderio. Tuttavia hanno una possibilità di scelta: esaudire il desiderio dimenticandosi di tutta l’esperienza e le amicizie fatte, oppure rinunciare al desiderio e mantenere i ricordi di quanto vissuto insieme per tutto l’anno scolastico (questo il tempo che hanno a disposizione per stare nel castello e trovare la chiave). Devono rispettare però una regola: ritornare nel mondo reale entro le cinque del pomeriggio, altrimenti verranno divorati da un grande lupo.
Dopo aver ascoltato le parole della Venerabile Lupo (la bambina con la maschera), i sette ragazzi (quattro maschi e tre femmine) esplorano il castello, ma senza darsi tanta pena da subito a cercare la chiave. Col passare dei giorni e delle settimane, cominceranno a stringersi dei legami e a farsi più forti quando scopriranno che tutti sono stati vittime di soprusi in famiglia o a scuola; tutti provano un forte senso di isolamento e di solitudine, ma parlando tra loro riusciranno a farsi forza e a prendere coraggio. Scopriranno anche che frequentano la stessa scuola media (tranne uno, che però se non si fosse trasferito avrebbe frequentato lo stesso istituto) e decidono d’incontrarsi, anche se nessuno di loro, per via dei propri problemi, la frequentava più.
All’appuntamento però i ragazzi non si riescono a incontrare; Kokoro anzi scopre che non c’è nessuno che porti il nome degli altri sei ragazzi. Quando si rivedono, e ognuno dice che è andato all’appuntamento, uno di loro fa l’ipotesi che appartengono a mondi paralleli, ma la Venerabile Lupo smentisce subito la teoria.
Kokoro, dopo aver parlato con le altre due ragazze invitate nel castello ed essersi aperta rivelando il motivo per cui non va a scuola (è vittima del bullismo di una sua compagna di classe e delle sue amiche), parla con la madre di quello che la affligge e assieme affrontano la situazione; tornata a scuola, rivede l’amica con la quale non parlava più causa le bulle e andando a trovarla a casa prima che si trasferisca, capisce, vedendo un quadro che rappresenta la favola dei sette capretti, come trovare la chiave (ogni luogo dove i sette capretti si sono nascosti è un indizio per trovare la chiave della stanza segreta).
Mentre sta tornando a casa, vede qualcosa di strano accadere nella sua stanza: quando vi entra, scopre che lo specchio è andato in frantumi e uno dei ragazzi l’avverte che una delle ragazze è rimasta nel castello oltre l’orario ed è stata uccisa dal lupo. Stessa cosa poi è toccata agli altri.
Kokoro si fa coraggio e rientra nello specchio ancora funzionante, trovando la chiave seguendo le indicazioni date dal dipinto; raggiunta la stanza segreta, esprime il desiderio e salva gli amici divorati dal lupo, scoprendo dai ricordi lasciati quando sono stati divorati la verità che li riguarda (senza fare spoiler, avevo capito da prima il motivo per cui non si erano incontrati, non pensando ai mondi paralleli).
Essendo stato espresso il desiderio, dovranno tornare a casa e dimenticarsi dell’accaduto, ma con la consapevolezza che le difficoltà possono essere superate (verrà rivelata la natura della Venerabile Lupo e di quella del castello, ma questo è meglio che lo si scopra vedendo il film).
Il castello invisibile è sì un film fiabesco che raccoglie e unisce diverse favole e storie del folclore (dai Sette capretti a Cappuccetto rosso fino ad arrivare alla leggenda del pescatore che dopo aver soccorso una tartaruga viene invitato al Palazzo del drago e i racconti di Lewis Carroll), ma è anche una pellicola che con delicatezza affronta temi come bullismo, abusi familiari, delusioni, e tanti altri problemi che s’incontrano durante l’adolescenza (cosa fare da grandi, quale strada intraprendere). In tutto questo il castello rappresenta il luogo sicuro dove rifugiarsi, l’angolo di pace e tranquillità in cui ritrovarsi (un po’ come succede quando ci si rifugia nell’immaginazione per proteggersi da un realtà dura o crudele). Forse visivamente non è all’altezza di altre opere d’animazione (vengono in mente quelle di Makoto Shinkai), ma Il castello invisivile è una buona storia che alla fine della visione lascia una bella sensazione.

Le ombre residue

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Le ombre residueLe ombre residue, secondo volume di Mistborn Era Due di Brandon Sanderson, sotto certi aspetti ricorda un po’ i due film diretti da Guy Ritchie su Sherlock Holmes: l’ambientazione ottocentesca, l’investigazione, l’azione adrenalinica e in parte pure i personaggi, con Wayne che ricorda per il suo fare battute e i camuffamenti il Sherlock Holmes interpretato da Robert Downey Jr. e Was, più ponderato e più portato al combattimento, che assomiglia al Watson il cui volto nella pellicola è dato da Jude Law. A pensarci un attimo viene da chiedersi se Sanderson sia stato ispirato dal lavoro svolto da Guy Ritchie, ma la cosa non ha importanza, perché Le ombre residue è un romanzo che prende e tiene incollati alle pagine, intrattiene, diverte e fa ricordare il periodo della rivoluzione industriale con lo sviluppo della tecnologia che comincia a fare balzi in avanti e le prime manifestazioni dei lavoratori per avere migliori condizioni di lavoro.
Sinceramente, questo romanzo mi ha preso più del precedente, La legge delle Lande (seppur va detto che mi era piaciuto, anche se vi avevo trovato alcune pecche; ma forse, rileggendolo dopo dieci anni, darei un giudizio differente), probabilmente perché già conoscevo i personaggi e soprattutto perché non c’era il distacco dal tipo di ambientazione (si passava da una in stile Medioevo/Rinascimento a una western); a prescindere però dai gusti personali, questo romanzo è solido, scorrevole e funziona in tutte le sue parti.
Andando oltre il rammentare i film recenti su Sherlock Holmes (che non è una nota negativa, anzi è piacevole, dato che avevo apprezzato le due pellicole), siamo dinanzi a una società che sta cambiando velocemente, sia nel modo di lavorare (industrializzazione), sia di muoversi (si sta passando da cavalli e carrozze ad automobili), con tutti i suoi pro e i suoi contro; nuovi mestieri stanno sorgendo (avvocati) e gli allomanti trovano occupazioni un tempo impensate (esistono salotti sedatori, dove le emozioni delle persone vengono calmate dietro pagamento, un po’ come succedeva con le oppierie).
Dopo i fatti di La legge delle Lande, Wax e Wayne sono tornati in pianta stabile a Elendel, portando le loro ingombranti figure di giustizieri in una città che sta andando incontro alla civilizzazione, lasciandosi alle spalle la semplicità e la violenza del selvaggio west (d’accordo, qui non c’è un “west”, ci sono le Lande, ma questo serve per intendere cosa si vuole spiegare). I due (aiutati da Marasi) stanno dando la caccia a un fuorilegge, il Cecchino, che ha ucciso delle persone mentre rapinava; le cose prendono una strana piega quando Wax scorge tra la folla il volto di una persona che sa di aver ucciso anni prima (è stato la causa della morte della donna che amava).
La situazione si complica quando vengono coinvolti nell’inchiesta dell’omicidio del fratello del governatore di Elendel, ucciso mente era assieme a diversi membri della malavita cittadina. Presto scopriranno che dietro a tutto ciò si cela un kandra impazzito (creatura immortale capace di mutare forma ingoiando i resti di persone o animali che un tempo serviva il Lord Reggente); Salassa, questo il nome del Kandra, sta cercando di sovvertire l’ordine della città per rendere libere le persone: il suo scopo è fare sì che Armonia, il dio che ha fatto rinascere il mondo ai tempi della Catacenere (che altri non è che Sazed, il terrasiano che ha preso su di sé i poteri di Rovina e Preservazione). Dietro a questo suo modo di agire c’è un forte odio verso la divinità per averla costretta a fare qualcosa che non voleva; proprio questa forzatura l’ha spinta a togliersi uno dei due spuntoni metalurgici che permettevano ad Armonia di controllarla e ad agire di propria iniziativa.
Le indagini di Wax lo porteranno sempre più vicino al vero piano di Salassa, fino a quando non arriverà a scoprire la verità. E sarà una verità dolorosa, che riaprirà un’antica ferita, lasciandolo sconvolto e distrutto. Ma le soprese non si fermeranno qui.
Le ombre residue è davvero stata un’ottima lettura e aspetto con piacere l’uscita del prossimo volume di questa serie; scorrevole, veloce, senza appesantimenti o divagazioni, porta dritti dove l’autore vuole arrivare e c’è da dire che nel finale Sanderson sa fare un bel colpo di scena. Davvero un bel libro.

Tolkien

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Tolkien, il film sulla giovanezza dell'autore di Il Signore degli AnelliTolkien è un film biografico del 2019 sul famoso autore di Il Signore degli Anelli; dai dati acquisiti, il film non ha ottenuto un gran successo, né ha ricevuto critiche molto positive, ma personalmente la pellicola non mi è dispiaciuta. Certo, è romanzata, ci sono delle cose che non corrispondono con quanto realmente accaduto e non credo che Tolkien fosse “casinista” (ma si sa che per il grande schermo attira più una figura problematica che un tranquillo studioso), ma nel complesso il film sa fare il suo dovere, ha ricostruito abbastanza bene l’ambiente e l’atmosfera dell’epoca e riesce a far capire come le esperienze dell’autore abbiano influenzato le sue opere.
Dalla vita in campagna di quando era bambino che gli ha fatto sviluppare l’amore per la natura e i paesaggi alla passione per le letture e le storie d’avventura e fantasy trasmessa dalla propria madre, dalla passione per la conoscenza delle lingue all’amicizia dei membri del T.C.B.S. (Tea Club and Barrovian Society: i quattro amavano prendere il the nei Barrow Stores vicino alla scuola che frequentavano) che segnò profondamente Tolkien, dall’amore per Edith Bratt (che diverrà poi sua moglie) agli orrori e alle perdite portate dalla Prima Guerra Mondiale, il film riesce a mostrare discretamente il percorso che ha portato Tolkien a divenire scrittore fantasy.
Ci sono delle lacune, questo va fatto presente: mancano l’influenza che la religione cattolica ha avuto sui suoi libri, l’amore per i cavalli, la preoccupazione che lo sviluppo industriale avrebbe avuto sulla natura e questi non sono elementi da poco, visto l’importanza che hanno avuto nella produzione tolkeniana, ma se si vuole qualcosa di più approfondito e legato all’autore occorre rivolgersi altrove (per esempio gli speciali che sono stati messi nelle Special Extended Edition dedicate ai tre film realizzati da Peter Jackson su Il Signore degli Anelli).
Non per questo il film realizzato da Dome Karukoski va bocciato o stroncato: c’è del buono in quanto realizzato. In diversi, perché il film non venne né approvato né autorizzato dalla famiglia Tolkien e dalla fondazione omonima, lo snobbarono o lo giudicarono negativamente, ma questo è stato un atteggiamento non corretto; certo, non siamo di fronte a un film da Oscar, ma neppure a una pellicola scadente: Tolkien è un film che fa capire come le esperienze di vita hanno influito sullo scrittore che sarebbe poi divenuto il giovane Ronald mostrato dal regista. E quindi, a mio avviso, gli si può dare un’opportunità.

Contraddizioni 2

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Crozza parla di un mondo pieno di contraddizioniViviamo sempre più in un mondo di contraddizioni, dove i comici sono le persone più serie che mostrano la realtà e i politici diventano sempre più barzellette di se stessi e del ruolo che ricoprono, al punto che si pensa che forse sarebbe meglio che le due parti si scambiassero di posto.
Se non fosse tragico, farebbe sorridere che chi ha appoggiato il fascismo, responsabile di milioni di morti assieme al nazismo nella Seconda Guerra Mondiale (forse anche di più, dato che è stato il primo a ispirare il secondo e a causare quello che è stato; ora, non esiste la controprova che senza il fascismo non ci sarebbe stato il nazismo, ma i fatti mostrano ciò e dobbiamo fare i conti con esso, anche se molti hanno fatto e fanno finta di non vedere), per rifarsi la faccia asserisce di stare dalla parte degli ebrei, quando nel conflitto tra Israele e Palestina in questo caso ci sarebbe da condannare entrambi, dove da salvare ci sono solo le popolazioni che come sempre ci si rimettono sempre.
Non si fa che parlare della piaga dell’alcol tra i giovani, di come tanti di essi perdano la vita in incidenti stradali o ammazzano altre persone perché ubriachi, e poi c’è un ministro (Lollobrigida) che vuole che si aumenti il consumo dell’alcol legandolo agli eventi sportivi.
Ora si criticano tanto i calciatori perché c‘è lo scandalo scommesse, ma poi ci si dimentica come si è bombardato con la pubblicità su giocare online e fare scommesse (quello che fa sorridere è che dopo aver fatto l’illecito, si vuol far diventtare i calciatori colpevoli del fatto testimonial contro il gioco, per aiutare gli altri, perché così facendo “salveranno migliaia di vite”, stando ad alcune dichiarazioni di procuratori: in breve tempo li si fa passare da incriminati a eroi o martiri. La gente non è stata già presa in giro abbastanza?)
In un mondo dove le violenze sulle donne si fanno sempre più serrate, dove vengono ammazzate per i motivi più stupidi (Italia) o più fanatici (Iran), c’è ancora chi se ne salta fuori con discorsi del piffero (Gianbruno) sulle brutalità che subiscono.
Contraddizioni ovunque e si fa fatica, come dice Crozza (il video postao merita davvero di essere visto), a capirci qualcosa in tutta una confusione sempre più generalizzata, salvo che l’odio sta prendendo il sopravvento e sta aumentando a dismisura (basta vedere solo nel piccolo, dove i social, la rete, diventano un mezzo per scatenarsi nel modo peggiore).
Contraddizioni. Contraddizioni. Contraddizioni.

Suzume

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SuzumeCosa dire di Suzume di Makoto Shinkai? Si tratta di un film a due facce: la prima molto buona, spumeggiante, coinvolgente, mentre la seconda non mantiene lo stesso livello. Forse da uno come Shinkai ci si aspetta sempre tanto, ma in questo caso si va a finire in qualcosa di già visto, sia da parte dello stesso regista, sia da parte di altre storie. E la morale alla fine è che occorre sia accettare la scomparsa di coloro cui si tiene e andare avanti (Suzume), sia accettare le proprie responsabilità (Daijin): niente che non sia già stato affrontato.
Suzume è una liceale che vive con la zia, dato che la madre è morta quando lei era piccola. Il suo obiettivo è diventare infermiera, proprio come lo era il genitore (del padre non si ha traccia: la madre l’ha cresciuta da sola). Fa spesso un sogno ricorrente, in cui lei è piccola e sta cercando disperatamente la madre in mezzo a rovine e distese d’erba, fino a quando incontra una donna di cui non riesce a vedere il volto.
La sua è un’esistenza tranquilla fino a quando mentre va a scuola incontra un ragazzo che le chiede se nelle vicinanze ci sono delle rovine, dicendo che sta cercando una porta. Suzume rimane sia perplessa sia colpita da questo incontro e dopo un poco decide di seguire il ragazzo; raggiunge le rovine ma di lui nessuna traccia. Tuttavia, in mezzo a uno specchio d’acqua creatosi al centro di una grande struttura sta una porta solitaria; incuriosita, la apre, trovandosi davanti a uno splendido paesaggio sovrastato da un magnifico cielo stellato che le ricorda il sogno. Appena però attraversa la soglia, si ritrova nel mondo reale, non importa quanti tentativi faccia; l’unica cosa diversa è che all’improvviso compare una statuetta di gatto. Appena la estrae dal terreno, questa si trasforma in un gatto vero, che corre via.
Spaventata, Suzume scappa e torna a scuola, ma la sua tranquillità dura poco, dato che vede comparire dal punto in cui sono situate le rovine un fumo viola e nero. Torna alle rovine e ritrova il ragazzo incontrato poco prima che sta tentando di chiudere la porta dalla quale fuoriesce lo strano fumo. Dopo tanti sforzi riescono nell’impresa, ma il giovane, che si chiama Suota, rimane ferito a un braccio. Accoltolo in casa propria, Suzume lo cura e da lì viene a sapere che di porta come quella che ha visto, che sono dei passaggi dimensionali, ce ne sono diverse in tutto il Giappone e il compito di Souta è quello di chiuderle per impedire che da esse escano delle forze chiamate il Verme che si trovano sotto il terreno (il fumo che ha visto) che, abbattendosi sulla terra, causano i terremoti; la cosa è solo temporanea, dato che per fermarlo in modo più duraturo occorre usare la chiave di volta.
Mentre stanno parlando compare un gatto macilento: Suzume gli dà da mangiare e il gatto per la sua gentilezza cambia di aspetto e fa diventare Souta la piccola sedia a tre gambe di Suzume. Il gatto, infatti, che verrà chiamato Daijin, si rivelerà essere la chiave di volta che però non vuole più essere tale ma bensì divenire l’animale domestico della ragazza; inizierà così un lungo inseguimento a tratti comico, dove Suzume sul suo cammino incontrerà diverse persone che l’aiuteranno nel suo viaggio inaspettato.
Presto però Souta non potrà più essere con lei, dato che dopo essere stato mutato in sedia perderà sempre più se stesso; il che è una logica conseguenza dell’essere diventato lui la chiave di volta. Suzume, per fermare una manifestazione particolarmente potente del Verme è costretto a usarlo, ma non si rassegnerà a perderlo e andrà a parlare col nonno del ragazzo per sapere se c’è un modo per poterlo far tornare indietro.
Naturalmente esiste ed è proprio lei che può farlo, basta che ritrovi la porta che ha già attraversato una volta: infatti, Suzume è in grado di vedere l’Oltremondo (il mondo dei morti) essendoci stata da piccola. Qui scoprirà che quello che crede un sogno in verità è stato la realtà e per lei comincerà un altro viaggio non solo per riportare in vita Souta, ma per venire a patti anche con un passato che la tormenta ancora.
Ed è da questo punto in poi che il film Suzume perde quella verve che l’aveva caratterizzato; un po’ perché ripete in parte temi già visti in Viaggio verso Agartha, conosciuto anche come I bambini che inseguono le stelle (non per niente la scatola che Suzume dissotterra nei pressi nella sua vecchia casa distrutta porta scritto sopra il nome di Agartha), un po’ perché vuole rendere omaggio a ciò che è successo l’11 marzo 2011 (l’incidente alla centrale nucleare di Fuchushima avvenuto dopo il terremoto e il successivo maremoto). Se a questo si aggiungono i conflitti generazionali tra giovani e figure genitoriali, tra sogni infranti e rinunce in nome della responsabilità e difficoltà a comunicare i propri sentimenti, si capisce come Suzume venga appesantito più del dovuto prima di avviarsi verso un lieto fine, con Suzume che finalmente viene a patti con quello che è successo in quel tragico giorno di tanti anni prima (e come Shinkai suggerisce di fare in un qualche modo anche al Giappone).
Visivamente magnifico, Suzume fa un passo indietro rispetto ai film precedenti, soprattutto se lo si confronta a Your name; rimane un buon film, ma da Makoto Shinkai ci si aspetta qualcosa di più.

La spada della verità

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La spada della veritàLa spada della verità di Terry Goodkind è una sorta di copia di La spada di Shannara di Terry Brooks, che a sua volta era una copia di Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien e, visto il risultato ottenuto da Brooks, vien da pensare che il giudizio non sia positivo. Quindi tutto da buttare?
No: a Goodkind va riconosciuto che ha il coraggio di mostrare stupri, violenza sulle donne e pedofilia. Certo i cattivi sono più cattivi che non si può e ne fanno di cotte e di crude con tutti, anche con i bambini, e possono essere stereotipati al massimo della malvagità (per avere la popolazione dalla sua parte non ci pensano due volte a camuffare i propri soldati per quelli avversari e far massacrare quelli che dovrebbero proteggere), prendendo delle decisioni che lasciano perplessi (Darken Rahl, dopo che un mago ha ucciso con il fuoco magico il padre e ne è rimasto a sua volta profondamente ustionato, ha imposto che nessun fuoco venga acceso nel suo regno, pena gravi conseguenze; senza contare che fa giustiziare per un non nulla le persone, tipo che ci siano petali caduti sul pavimento nella tomba del padre), ma non sono molti gli autori che descrivono le violenze senza tanti giri di parole.
Senza contare che, benché non sia il massimo dell’originalità, la storia raccontata (il classico bene contro il male), le vicende e l’ambientazione create hanno un certo fascino. Certe tematiche (come a esempio la spiegazione che c’è dietro la Prima Regola del Mago, ovvero che la gente è stupida e crede a quello che vuole credere) sono interessanti, benché alle volte si va troppo sullo “spiegone”. E va riconosciuto che alcuni personaggi sono ben caratterizzati, come succede con Denna, visto che non è facile mostrare la mente di una torturatrice senza scadere nel classico cliché della figura assetata di sangue: Goodkind riesce a creare una mente complessa, seppur distorta, coniugando uno strano connubio di amore legato al dolore che rasenta la pazzia.
Però ci sono delle cose che davvero non vanno. Appena Richard e Kahlan s’incontrano diventano subito amici (sentimento che diverrà presto amore) e porteranno avanti per centinaia di pagine un rapporto young adult come purtroppo si è visto tante volte: sospiri, struggimenti, vorrei ma non posso, pianti (tutti e due piangono con una facilità disarmante). Per non parlare che tutte le figure femminili quando si tratta Richard parlano come se fossero sempre la stessa persona: tutte non fanno che ripetere che lui è una persona molto rara.
Se si riesce a sopportare tutto questo e si supera la prima parte, oltre a soprassedere che il potere delle Depositarie è il potere dell’amore  (non sorprende che la prima volta che Richard lo sente dire si mette a sghignazzare), la storia a un certo punto può anche essere godibile.
Richard è una guida che vive nei Territori Occidentali e da poco ha perso il padre, ucciso in strane circostanze; mentre sta cercando di fare chiarezza sul fatto, incontra e aiuta una donna vestita di bianco, Kahlan Amnell, salvandola dall’attacco di quattro uomini. Richard è sorpreso di sapere che lei viene dalle Terre Centrali e ha attraverso il pericoloso Confine (una sorta di barriera magica che ha a che fare con il mondo dei morti) per trovare il Primo Mago, l’unico che può aiutarla a fermare Darkhen Rahl, il tiranno del D’Hara che dopo le Terre Centrali vuole conquistare anche quelle Occidentali; infatti, se venisse in possesso delle tre Scatole dell’Orden e riuscisse ottenere il loro potere, per il mondo inizierebbe un’era oscura.
Richard porterà Kahlan da Zedd, un vecchio un po’ strambo suo amico, che si rivelerà essere proprio la persona cercata. Zedd darà la Spada della Verità (un potente artefatto magico che dona sì potere, ma che pervade l’utilizzatore di rabbia; senza contare che può diventare bianca se chi la impugna è mosso da vera compassione e perdono, l’opposto della rabbia) a Richard e lo nominerà Cercatore (un guerriero che lotta per portare verità e guidare i popolo verso la saggezza). Assieme a Chase, un Custode del Confine, partiranno alla volta delle Terre Centrali per entrare in possesso dell’unica Scatola dell’Orden non ancora nelle mani di Rhal. Sarà un viaggio lungo e pieno di pericoli, dove incontreranno la saggia incantatrice Adie, il popolo del fango, la strega Shota, le perfide regnanti di Tamarang e la piccola Rachel.
Richard scoprirà che Khalan è la Madre Depositaria e per via del suo potere non potranno stare insieme. Dopo essere stato catturato e torturato per settimane dalla Mord-Sith Denna, una donna addestrata a catturare i dotati di potere magico e a piegarli alla sua volontà, Richard acconsente ad aiutare Rhal, ma nel mentre cerca di trovare un modo per sconfiggerlo. Dopo essersi fatto amica Scarlet, il drago rosso personale di Rahl, salvando il suo uovo, Richard, che aveva memorizzato quando il padre era ancora in vita Il Libro delle Ombre Importanti prima di distruggerlo, quando tutto sembra perduto ha la meglio su Rhal utilizzando la Prima Regola del Mago, e relegando il tiranno nel Mondo Sotterraneo, il mondo dei morti. Richard, Kahlan e Zedd sono di nuovo riuniti; Richard prenderà il posto di Rhal e farà giustiziare il fratello, rivelatosi il traditore al soldo del Tiranno, e potrà stare con Kahlan, avendo scoperto il modo per non sottostare al potere della Depositaria; Zedd ha ottenuto la sua vendetta su Rahl, ma non rivelerà per il momento che il despota era il vero padre di Richard, avendo stuprato la figlia del mago quando era giovane, e che George Cypher era solo il padre adottivo, che aveva accolto amorevolmente Richard e la madre quando si erano rifugiati nei Territori Occidentali.
In definitiva, il primo volume di La spada della verità non è proprio malaccio: si è letto di peggio, ma si è anche letto di meglio.