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Il campo da basket

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Seduto sulla panchina, osservo la linea del tiro da tre punti: sbiadita, in alcuni tratti mancante.
Alzo lo sguardo sul tabellone dall’angolo sbrecciato. La retina del canestro è sfilacciata.
Il campo da basket ha visto tempi migliori, ma, per quello che devo fare, va più che bene. Anzi, direi che è adatto a un ex-giocatore alla soglia dei trent’anni.
Forse esagero a definirmi ex-giocatore: è un termine che si usa per i professionisti e io non mi sono neanche avvicinato a esserlo. Da adolescente ho incolpato il mio metro e novanta, ritenendolo troppo poco per poter giocare in serie A.
“Se fossi alto due metri, allora sì che cambierebbero le cose” continuavo a ripetermi.
Ma non è l’altezza a fare la differenza, come hanno insegnato Allen Iverson e Muggsy Bogues. Non la fanno neanche le doti fisiche da sole, anche se sicuramente danno una mano: questo l’esperienza sul campo me l’ha insegnato. Però, se a quei tempi avessi potuto allenarmi di più, invece di dovermi occupare dello studio come volevano i miei genitori, i miglioramenti sarebbero stati maggiori. Ma non sarei diventato un campione. Di Michael Jordan ne nasce uno ogni tanto e quell’uno non ero io, anche se l’io adolescente di allora non lo avrebbe ammesso. Mi consideravo un genio del basket, proprio come Hanamichi Sakuragi.
Hanamichi Sakuragi, genio del basketMi scappa da ridere: quanto avevo in comune con quel personaggio strampalato. L’avvicinarmi al basket per via di una ragazza, le prese in giro dei compagni di squadra perché all’inizio non conoscevo le regole, le cazzate in partita, le arrabbiature per le sconfitte, gli scontri con gli avversari.
Tiro fuori il pallone dallo zaino e comincio a palleggiare.
La mia vita come la storia di un fumetto.
Sembra qualcosa di unico, ma unico non è. Come me ce n’erano tanti.
Sembra qualcosa di divertente, ma non lo è stato come avrebbe dovuto. Non mi godevo il gioco per via della voglia di vincere sempre, anche se si trattava di un semplice allenamento.
“Quando si gioca con te sembra di essere in guerra” mi rinfacciò una volta un compagno di squadra a muso duro.
Aveva ragione. Ero troppo competitivo. Ma quella era anche la mia qualità migliore. Non mollavo mai.
“Sei un leone.” Ricordo ancora con orgoglio le parole che mi disse una volta un avversario. “Vorrei sempre avere in squadra giocatori con la tua volontà.”
Volontà. Qualità imprescindibile per emergere. Mi permise di ritagliarmi il mio posto in squadra. Non so quando avvenne di preciso, penso verso i diciotto anni, ma capii che non sarebbe bastata per compiere il salto di qualità. Con l’impegno e la costanza avrei potuto colmare le lacune che avevo, ma niente al mondo mi avrebbe fatto avere la lucidità necessaria nei momenti decisivi. Il mio limite è sempre stato di non sopportare la tensione. L’ansia di voler ottenere il massimo, essere il migliore, mi caricava di pesi che mi facevano rendere meno delle mie reali potenzialità e commettere errori quando non dovevano essere commessi.
Il rendermi conto del mio limite però non mi ha sconfortato, anzi, è stata una sorta di liberazione. Ho cominciato ad accettare che fare errori non è la fine del mondo. Cercare di migliorarsi è un bene, ma pretendere la perfezione porta solo a ossessioni.
Da quel momento il basket per me è diventato un piacere. Molti miei amici, superati i venti anni, hanno smesso di giocare, addirittura non hanno mai più toccato un pallone; ma io, anche dopo aver lasciato la squadra, tutte le volte che i miei impegni me lo permettevano, andavo in un campo di basket a fare qualche tiro.
Questo però è rimasto il mio preferito. Il torrente che scorre al suo fianco e che fa un gorgoglio piacevole. I tigli lungo il perimetro di gioco, verdi d’estate e gialli in autunno. Le colline boscose che circondano la zona.
E poi ci sono i ricordi.
Passai l’estate dei miei sedici anni ad allenarmi su questo campo. Rammento con piacere le giornate passate qui; quante partite con i miei amici. Quanto sudore ho lasciato su questo cemento.
Ma non c’erano solo fatica e agonismo. Alle volte, finito di giocare, mi sedevo sull’erba e guardavo il tramonto. Il sole che scendeva dietro le colline, il cielo che si colorava di sfumature dorate e pian piano degradava in colorazioni rosso-arancio, per poi sbiadire nel viola e mutarsi nell’azzurro-blu che precedeva il giungere della notte.
Allora non me ne resi conto, proteso in avanti com’ero, ma quello fu un periodo davvero felice, a tratti addirittura magico, dove tutto pareva possibile. Non ho più provato quelle sensazioni.
Mi alzo e sempre palleggiando vado a canestro con un terzo tempo. Quando i miei piedi toccano di nuovo il suolo, il ginocchio sinistro mi lancia una fitta. Lo massaggio e sistemo meglio la fascia.
“Meglio andarci piano.”
Un tiro dopo l’altro comincio a riscaldarmi. Osservare la parabola che la palla disegna in aria, sentire il ciaf della retina quando entra nel canestro, sono sensazioni che non possono essere spiegate a chi non ama il basket. Non avrò avuto il successo che desideravo, ma forse è meglio così, perché se fosse divenuto un lavoro avrebbe perso probabilmente tutto il suo fascino.
Ho un solo rimpianto. La finale regionale.
Quella sarebbe stata l’ultima partita che avrei giocato. Non pretendevo di vincerla, anche se ci tenevo: tutto quello che volevo era avere la possibilità di scendere in campo, impegnandomi al massimo delle mie possibilità. Volevo soltanto quell’opportunità.
Non sono riuscito neppure a mettere piede sul parquet. La partita fu sospesa a metà del primo quarto per una rissa tra un mio compagno e un avversario, che diede il via a una più grossa tra i genitori scesi in campo dagli spalti.
Quello era il mio momento di gloria e fu rovinato da persone che nulla ci avevano a che fare. Impotente, rimasi a guardare adulti che si prendevano a calci e pugni, senza riuscire a pensare a nulla. Solo quando tutto finì e venni a sapere che la partita, per gli incresciosi eventi, non sarebbe stata più disputata, non assegnando il titolo a nessuno, che provai una gran rabbia; avevo perso qualcosa cui tenevo senza averne colpa, senza avere neppure l’opportunità di averci provato.
Si dice che il tempo guarisce molte cose, ma ancora oggi provo la delusione di non aver potuto giocare quell’ultima sfida. Un’occasione mancata di un niente, proprio come il mio tiro sotto canestro che rimbalza quattro volte sul ferro prima di uscire.
«Ehi, zio» mi sento chiamare alle spalle «ti fai un uno contro uno?»
Mi volto e vedo un ragazzo abbronzato, sicuro di sé. Mi ricorda un po’ me, sempre pronto a sfidare chiunque per dimostrare di essere il più bravo. Solo che rispetto a me è più tatuato.
Mi avvicino a lui oltre la linea dei tre punti. «Vince chi arriva a ventuno?»
Abbozza un sorrisetto abbassando lo sguardo sulla mia fascia. «Sicuro.»
Sorrido in risposta. Mi considera un avversario facile da battere. «Ti va bene se comincio io?»
Allarga le braccia. «Fai pure.» Continua ad avere il sorrisetto dipinto sul volto.
Non ha minimamente capito quello che sta per accadere.
Il tiro in sospensione da tre punti parte senza che lui riesca a mettersi in guardia. La palla entra nel canestro senza toccare il ferro.
Il ragazzo mi guarda a bocca aperta.
«Vale la regola del chi segna regna?» gli chiedo.
«Certo» dice mentre si affretta a recuperare la palla e a riconsegnarmela.
Gli anni passano e molte cose cambiano. Ma ce ne sono alcune che non lo fanno; si possono dimenticare, rimanere assopite a lungo, ma prima o poi tornano a saltare fuori, perché certe nature non possono essere cambiate.
Scocco il tiro da tre punti sorprendendo di nuovo il ragazzo. Sorrido mentre il suono della retina che viene stracciata risuona sul campo.
Potrò anche essere più tranquillo e razionale di quando ero giovane, ma non ho perso la voglia di vincere.

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