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Frammenti di mondo 2

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La descrizione di un luogo può suscitare pensieri, emozioni differenti. Un luogo sconosciuto può far provare ansia, timore, paura dell’ignoto. Un campo di battaglia fa avvertire l’adrenalina che scorre nel corpo dei combattenti a un passo dalla morte a ogni colpo sferrato.
In un romanzo di genere fantastico si ricercano emozioni forti, che facciano vivere un’avventura che non possa essere dimenticata, che tocchi picchi di epicità, di grandezza.
Ma perché il continuo essere sulla corda non stanchi, facendo perdere forza al racconto, occorrono dei momenti di pausa. Momenti che facciano apprezzare la bellezza che viene dalla calma, dalla quiete. Sì, perché tutti ricercano le emozioni forti che rompano la monotonia del quotidiano, se questo accade ogni tanto, ma allo stesso tempo nessuno rinnega il piacere che viena dalla familiarità dei luoghi che si conoscono.

Il Messaggero lasciò l’area del tempio dopo aver consumato un rapido pasto e scambiato qualche battuta con i vecchi compagni del tempo del noviziato. Attraversata la piazza e il piccolo parco antistante l’ingresso all’area religiosa, si riversò nel traffico cittadino, mischiandosi al flusso continuo di gente che scorreva nelle strade.
Presto s’allontanò dalla caoticità del luogo, percorrendo vie sempre meno affollate fino ad arrivare alle porte della città; l’aperta campagna spaziò davanti ai suoi occhi, con alberi e dolci declivi dove i campi biondeggianti di grano terminavano.
Lasciando i cupi pensieri scivolargli di dosso, svuotò la propria mente, assaporando la giornata soleggiata che l’avrebbe accompagnato lungo la via di casa. Abbandonò la strada maestra per prendere una diramazione che svoltava verso nord; i luoghi noti lo accolsero con la loro famigliarità. Gli anni passavano, ma tutto sembrava restare immutato al tempo della fanciullezza passata.
Il ricordo delle passeggiate con la madre riaffiorò caloroso alla memoria. Rammentava con affetto le camminate delle giornate primaverili con la miriade di colori e profumi che spuntavano da ogni dove e quelle dei freddi giorni invernali, infagottato sotto una coltre di abiti pesanti; passeggiate sempre limitate dallo studio che vedeva come un nemico cui sottrarsi. Ogni ora passata sui libri era tempo rubato all’aria aperta; più di una volta era stato richiamato dalla madre a non distrarsi quando era trovato a guardare fuori della finestra con sguardo perso, desideroso di correre libero.
Percorrendo il sentiero deserto assaporò la pace della natura e ogni preoccupazione si dissolse.

La giornata era calda, accompagnata da una lieve brezza fatta di aromi di campi e boschi, traghettatrice di rade nubi bianche. Andò a sedersi su una grossa pietra ai bordi della strada, in prossimità di una svolta che affiancava un piccolo boschetto di querce. I dolci declivi erano un misto di coltivazioni e natura libera che si alternavano senza uno schema preciso, inframmezzate dai riflessi argentei dei ruscelli che parevano fare l’occhiolino.
Lo sguardo si soffermò su un piccolo stagno all’ombra di alberi slanciati, i raggi del sole che filtravano attraverso le frasche andando a creare sulla superficie dell’acqua chiazze dorate.
L’immagine davanti ai suoi occhi cambiò, assumendo i contorni e le sembianze di un paesaggio invernale. Gli alberi non più coperti di foglie si stagliavano contro lo sfondo del cielo limpido, guardiani di due figure umane poste a breve distanza una dall’altra. Ghendor si riconobbe nella più piccola, la più indaffarata, quella che si muoveva senza posa da una parte all’altra delle sponde dello specchio d’acqua. Quando il tempo e le condizioni climatiche lo permettevano, al ritorno da scuola, sotto lo sguardo vigile e divertito della madre, si fermava a giocare nei pressi del laghetto. Il passatempo preferito era scagliare sassi contro la crosta ghiacciata. Sassi tondi, appuntiti, alcuni talmente pesanti che riusciva a malapena a sollevare, venivano gettati contro di essa, sempre con lo stesso risultato: il ghiaccio si crepava, formando sottili linee simili alla tela di un ragno, ma non si rompeva. E lui determinato ripartiva alla ricerca del sasso che avrebbe sfondato la dura superficie. Era troppo ostinato per capire che lo spessore del ghiaccio era oltre le sue forze di bambino, convinto che provando e riprovando sarebbe riuscito a farlo cedere.
La madre lo richiamava quando era accaldato e sudato, riprendendo il cammino verso casa per timore che prendesse un malanno. L’incontro con il lago era rimandato alla volta successiva e allora avrebbe trovato il modo di averla vinta. La madre ascoltava, dandogli ogni tanto qualche incoraggiamento, divertita da quel bizzarro modo di giocare, evitando di rimproverarlo quando non riusciva a capire il motivo di tanto indaffararsi: ormai adulta non vedeva più il mondo con gli occhi di un bambino, ma ricordava come a suo tempo vivesse alla stessa maniera, credendo all’esistenza di cose che per i più grandi erano solo sciocche fantasie. Più volte si era domandata cosa vedesse il figlio quando giocava, trovando risposta in ciò che era stata: una sorta di magia personale che rendeva speciale ogni momento. Era il periodo dell’innocenza, in cui la vita si esprimeva attraverso sogni e desideri, ammantando tutto di linee gentili.
A quel tempo non conosceva i pensieri della madre: sarebbero stati rivelati molto tempo dopo, un giorno in cui si erano messi a parlare del passato.
Diede un ultimo sguardo allo stagno. Era andato avanti per anni con quei giochi e alla fine di ogni inverno la superficie ghiacciata era coperta di sassi; con tutti quelli che aveva lanciato, il laghetto ormai doveva esserne pieno: se si fosse immerso l’acqua sarebbe arrivata al massimo al ginocchio. Sorrise al pensiero.
Sistematosi sulla spalla la sacca si rialzò dal masso, riprendendo il cammino. Dalla sommità della collina scorse i tetti del villaggio natale.
Un insediamento che sorgeva al centro del piccolo avvallamento tra le colline, sviluppandosi attorno al pozzo dal quale la gente attingeva l’acqua; un paesino che dava ai suoi abitanti il necessario per condurre una vita dignitosa, che non attirava avidi sguardi, permettendo di vivere un’esistenza serena, anche se forse monotona.
Passando per le vie tranquille, oltrepassò il pozzo, lasciandosi alle spalle la piccola piazzetta; s’inoltrò nello spazio tra le case, ritrovandosi di fronte a un gruppetto di abitazioni discostato dal resto del villaggio. Abbandonata l’ombra gettata dagli edifici, arrivò nel piccolo spiazzo antistante la sua dimora.
Costruita in sassi, aveva muri spessi che tenevano freschi gli ambienti d’estate e caldi d’inverno. Il tetto, ricoperto da tegole di un ocra spento, spioveva dolcemente, con la grossa trave su cui poggiava che sporgeva dalla facciata. Una piccola finestrella ovale posta sotto di esso portava luce alla bassa soffitta che fungeva da ripostiglio per attrezzi e utensili vari. A parte quell’ambiente, le camere della casa si estendevano al pianterreno.
Il profumo dei fiori e delle pianticelle profumate sui davanzali delle finestre raggiunse le sue narici, sostituito dopo pochi passi da un odore invitante e inconfondibile: il profumo del pane appena sfornato.
Varcata la soglia di casa si ritrovò nella sala da pranzo irradiata dalla luce attenuata dalle tende tirate. Nella parete opposta all’entrata c’era il lavello con i piatti lasciati ad asciugare; nell’angolo, il piccolo forno costruito con pietre refrattarie, ancora caldo per la cottura.
Lasciò lo sguardo spaziare sulla famigliarità delle pareti domestiche.
Vicino alla porta erano sistemate le sedie riservate per le visite degli ospiti; la credenza contenente piatti, posate, bicchieri e brocche era posta vicino al corridoio a sinistra dell’entrata, conducente ad altre tre porte. La prima si apriva su una ripida scalinata che portava alla cantina, le ultime due davano sulle camere.
Sul tavolo c’era una cassetta di legno coperta da un telo bianco, ondulato da invitanti rigonfiamenti.
Avvicinandosi, passò la mano sulla stoffa: era calda.
Con fare cerimoniale la scostò, rivelando la forma tondeggiante e abbrustolita di un paio di pagnotte da poco sfornate. Presane una tra le mani, l’avvicinò alle narici, inspirando avidamente il fragrante aroma e apprestandosi a spezzarlo.

4 comments to Frammenti di mondo 2

  • Ben scritto, ma devo ammettere che questo è il classico paragrafo che io durante la lettura di un romanzo salto impunemente a piè pari. Sono una peccatrice senza pentimento 🙂

  • Grazie 🙂 Mi sa che scrittori come Brooks, Jordan e King con te subiscono molti salti 😉 (nessun paragone con questi scrittori, ognuno è solo se stesso) : farai in un attimo a finire i tomi del Re, anche quelli più corposi 😛

  • No, di King non salto quasi nulla a dir la verità. Gli altri un po’ di più. L’uomo delle descrizione è Tolkien, e anche Murakami non scherza!
    Sai cosa? Che nelle descrizini di King l’atmosfera è sempre piuttosto tesa, ed è raro annoiarsi. Il fantasy è un po’ più vittima dei paesaggi e raramente provo un sentimento lontano dalla noia.
    Anche nei thriller i particolari sono spesso importanti perchè celano indizi o curiosità e le leggo tutte senza problemi.
    Pensandoci…sai che forse le descrizioni le salto soprattutto nei fantasy? Oddio, me ne sono tresa conto solo ora…sei meglio di uno psicologo!

  • Hai fatto tutto tu 😉 , io ho solo scritto un brano: l’accorgerti di questa cosa dipende da te ed è molto più efficace che avere a che fare con uno psicologo 😀
    Riguardo al pezzo la parte descrittiva è marginale, in funzione dei ricordi dell’infanzia, per rendere un’atmosfera calma, di piacevole quotidianità. Logicamente tolto dal contesto in cui si trova perde parte del suo effetto, dato che la funzione del brano, in questo caso, è il ritrovare un luogo (non solo fisico) che possa riportare un pò di pace dopo il verificarsi di certi eventi. Non si fa così anche nella realtà?

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