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Un tempo per ogni cosa

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Un tempo per ogni cosa è un racconto con il quale ho partecipato al Mezzogiorno d’Inchiostro numero 103 del sito Writer’s Dream.

Sento il cuore che pompa con forza, il sudore che scivola sulla fronte, finendomi su un occhio. Ansimo mentre accosto e mi fermo oltre la linea bianca della strada. Prendo la borraccia e bevo: piccoli e lenti sorsi, perché se bevo troppo e troppo velocemente alle volte arriva una stretta all’altezza dello sterno, come se ci fosse una mano invisibile che vuole chiudere il passaggio dell’acqua; una sensazione che dura poco, un paio di secondi, ma abbastanza da essere sgradevole.
Alzo lo sguardo: mancano una cinquantina di metri alla cima. Il tratto con pendenza maggiore, come se la salita non fosse stata già abbastanza dura di suo: ha cominciato a tirare da subito e non ha mai dato tregua, aumentando sempre più la sua ripidità.
Lascio andare un lungo sospiro: coraggio, devo ripartire. Spingo sui pedali, riprendendo a muovermi. Le ruote girano lentamente mentre sbuffo; ha davvero ragione quello che cantava Ma quanto è dura la salitaaaa…chissà se gli è venuto in mente mentre andava in bicicletta…com’è pure che si chiamava? Il nome mi sfugge…eppure è uno famoso… provo a pensarci ma niente; pazienza, guarderò su Google quando tornerò a casa.
Faccio un ultimo sforzo e raggiungo la cima. Guardo l’orologio: ci ho messo venti minuti a percorrere il tratto. Certo, ci avrei messo meno se avessi potuto fare dei fuori sella, ma il mio ginocchio non me l’avrebbe perdonato.
Ehi, sei per caso impazzito? Non sei più un giovincello per fare queste robe: lo sai bene che sono acciaccato e non posso sopportare certi sforzi. Ma tu a me non badi, pensi solo fare il fenomeno. Continua così e una di queste volte ti lascio a piedi; dopo sono cazzi tuoi.
In fondo non ha tutti i torti, non ho avuto molto riguardo per lui: anche quando mi lanciava dei segnali, non ci badavo.
Supero l’ultima curva e il paesaggio fatto di campi e colline mi si apre davanti. La strada ora scende in un susseguirsi di curve a gomito. Inizio la discesa, ma vado giù con i freni tirati: sudato come sono, non vorrei andando troppo veloce prendermi un colpo d’aria. Per questo, oltre alla tuta, mi sono messo anche una giacchetta leggera proprio per prevenirli.
Sarà meglio, perché se non mi tratti con i dovuti riguardi, lo sai che poi comincio ad andare come un fosso. E tu dopo sei nella merda. Letteralmente.
Non posso dare torto al mio intestino. Inoltre non mi diverto più a scendere come un matto lungo le discese, gobbando come un porco a ogni curva. Anzi, dopo aver visto un mio amico investito mentre sfrecciava in discesa, devo ammettere che la velocità mi spaventa.
Mollo i freni: ho raggiunto la pianura. Riprendo a pedalare, ma senza fretta. Oggi è una bellissima e luminosa giornata d’autunno: querce e faggi sono accesi di mille sfumature di giallo e di rosso. Il verde degli abeti sembra risplendere ancora di più. In cielo sottili nubi bianche veleggiano sfiorando la cima delle montagne in lontananza. Lungo il marciapiede ci sono i frutti caduti degli ippocastani.
Due caprioli, una madre e il suo piccolo, attraversano la strada. Si fermano in mezzo al campo alla mia sinistra, fissandomi come se fossi un animale strano. Non posso dire che non abbiano ragione: con il casco sembro l’Alien di Ridley Scott.
Osservo il loro allontanarsi mentre un gruppo di cinque ciclisti mi supera di slancio. Qualche anno fa la mia indole competitiva mi avrebbe spinto a mettermi sulla loro scia come un lupo che insegue la preda; ora li lascio andare per la loro strada. Proseguo al mio ritmo tranquillo, fermandomi ogni tanto a scattare qualche foto al paesaggio.
«Passa!»
«Ma che cazzo di lancio fai!»
«Dovevi scattare prima!»
Possono passare gli anni, gli interpreti, ma certe cose non cambiano mai. Imbocco la strada sterrata e raggiungo il parco antistante al campo di calcio: là un gruppo di giovani in pantaloncini e a torso nudo corre dietro a un pallone. Non è una giornata fredda, anzi, però stare in quel modo mi pare eccessivo. Sorrido. Si vede che non sono più quello di una volta. anch’io alla loro età facevo lo stesso. Forse era un po’ narciso, forse un po’ esibizionista, ma mi piaceva sentire il sole sulla pelle; soprattutto mi facevano piacere i complimenti.
Ma chi cazzo sei? Robocop?
Questa era la battuta che partiva quando mi toglievo la maglietta: le ore di palestra mi avevano fatto saltare fuori un bel paio di pettorali. E questo lo notavano anche le ragazze che venivano a vederci; eccome se lo notavano. I loro sguardi erano molto eloquenti e questo non poteva che farmi piacere. Qualche anno dopo non sarebbe stata la stessa cosa, dato che mi accorsi che di me vedevano solo quello: non era bello essere considerato un uomo oggetto.
Appoggio la bici a un albero, mi sfilo in casco e mi siedo sulla panchina più vicina; una decina di metri più in là dalla mia ce n’è un’altra con sopra un paio di vecchietti che guardano con la bocca storta i giovani.
«Proprio una bella roba!»
«Un’indecenza! Se ne stanno sotto il sole tutti svestiti, come se fossero dei maiali!»
«Ma sono dei maiali! Guarda come si mettono in mostra per quelle quattro poco di buono là!»
Volgo lo sguardo verso le gradinate una ventina di metri più in là: un gruppetto di ragazze ridacchia mentre si fanno vedere qualcosa sugli smartphone.
«Dio li fa, poi li accoppia! Guarda come sono vestite!»
«Che schifo! Ai miei tempi non si vedeva nemmeno la pelle della caviglia!»
Osservo meglio, ma non vedo nulla di strano: si vestono come ragazze della loro età. Sorrido davanti alla scena dei due vecchietti inviperiti: il tipico comportamento di chi disprezza qualcosa perché non lo può avere.
«Troie!» sbotta più forte del normale uno dei due.
Una ragazza alza lo sguardo dal cellulare e guarda a disagio i due; vedo che vorrebbe ribattere, ma lascia perdere.
«Hai visto quello che è arrivato adesso? Cosa viene a fare qui?»
«Te lo dico io: quelli che vengono qui sono o busoni o pedofili.»
«State parlando per caso di voi stessi?» dico candidamente voltandomi verso di loro.
Serrano la bocca come se avessero ingoiato un moscone. Poi si alzano in piedi scatto e si avviano verso la strada, non prima però di avermi lanciato un’occhiata di traverso; li saluto agitando una mano e sfoggiando il mio più smagliante sorriso da presa per il culo.
Faccio per tirare fuori il libro che ho nella tasca della giacca, ma vedo la ragazza che si era voltata verso i due avvicinarsi.
«Cosa ha detto a quei vecchiacci? Nessuno riesce mai a farli stare zitti.»
«Ho usato la loro stessa moneta.»
«Io non avrei avuto il coraggio di farlo.»
Avrà circa quindici anni. «Nemmeno io lo avevo alla tua età. Ma il bello della mia età è che te ne freghi di molte cose; soprattutto dai agli altri quello che si meritano, senza farti troppi scrupoli.»
«Forte…» volge lo sguardo verso la mia due ruote. «Le piace andare in bici?»
«Mi rilassa.»
Mi guarda per niente convinta. «Non è faticosa?»
«Alle volte: è un po’ come la vita.»
«Ah» fa perplessa: so che le sfugge il senso delle mie parole. E che le sfuggirà ancora per degli anni; ma con il tempo le comprenderà. «Ora la saluto: torno dalle mie amiche.»
«Ciao.»
Apro il libro, ma non comincio a leggere: penso alla vita e alle sue età. La fanciullezza con i suoi sogni. La gioventù con la sua carica d’energia. L’età adulta con la maturità acquisita dalle esperienze. La vecchiaia con il suo non dover più dimostrare niente a nessuno.
Alzo gli occhi e guardo i giovani: una volta stare in panchina e guardare gli altri giocare mi avrebbe fatto soffrire. Ora è qualcosa di confortante, perché capisco che c’è un tempo per ogni cosa. Non è poi così male non avere così tante energie da buttare via, perché ci si focalizza su ciò che è davvero importante. Sorrido mentre inizio a leggere: non tutto ciò che si perde è un male.