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Il magazzino dei mondi 2

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Brîsa ciapér pr al cûl 11

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Ormai stiamo andando incontro a una deriva dove sembra che, oltre il danno, si faccia apposta a prendere in giro.
Ce ne sono talmente tante che ormai non si sa più da che parte cominciare.
Si vuole imporre il vino senza l’uva e il formaggio senza il latte.
Ci sarebbero tante cose in cui impegnarsi per migliorare il mondo, ma sembra che far vivere meglio le persone non sia la priorità. Mentre è prioritario far sapere a tutto il mondo che un astronauta italiano ha portato in orbita un fumetto italiano (Rat-man).
Ci si lava la bocca che il Job Act funziona, ma finiti gli incentivi, le assunzioni a tempo indeterminato sono crollate, mentre è aumentato e non poco il lavoro a chiamata. Non bastasse continuare a sentire di sgravi, decontribuzioni, bonus per assumere i giovani (tutti gli altri che non hanno un lavoro allora sono da buttare? chissenefrega di loro?), in Italia da decenni continuano a esserci migliaia di persone con grande professionalità che vengono sfruttate come lavoratori socialmente utili, ovvero vengono fatti lavorare come e quanto le persone assunte regolarmente ma pagate con indennizzo di disoccupazione. E sono anche fortunate, perché c’è gente di cinquant’anni che fa il lavoro per il quale ha maturato molta esperienza ma viene pagato come un tirocinante (quattrocento euro lordi al mese). Questo è un breve sunto della puntata di Report trasmessa lunedì 23 ottobre.
Altro punto affrontato dalla trasmissione di Rai3 è stato quello della cioccolata. Già vedere di gente che fa il bagno nella cioccolata in centri benessere è un insulto che grida vendetta dinanzi a chi non ha nemmeno di che sfamarsi, scoprire che le certificazioni, che asseriscono che non vengono usati bambini per raccogliere le fave di cacao e che non sono usate le foreste protette per produrle, sono false, perché non controllano nulla ma si fanno però pagare profumatamente, fa passare la voglio di mangiare la cioccolata anche se si è degli appassionati.
Anna Frank con maglia della Roma: si riflette sul caso nella rubrica Brîsa ciapér pr al cûlDulcis in fundo non poteva mancare il becero comportamento dei tifosi di calcio. Per l’ennesima volta sono i tifosi di una squadra di Roma a far notizia, istigando all’odio e all’antisemitismo, infangando il ricordo di una tragedia spaventosa; non contenti di ciò, si offendono perché la loro è solo una goliardata e li si deve lasciar fare perché si divertono così, perché fa parte dello sport, del gioco. Dinanzi a tali bestialità, le società e le istituzioni sanno fare solo dei bei discorsi, ma in concreto non fanno mai nulla per far smettere a questi “tifosi” (che tifosi non sono, ma solo violenti che vogliono sangue e morte: sì, perché l’immagine di Anna Frank con la maglia della Roma significa “tutti i romanisti sono ebri e come gli ebrei di allora devono morire”): le multe sono irrisorie e chiudere le curve per un paio di turni non fa cambiare nulla. Cambierebbe invece molto se si cominciasse a far perdere le squadre di questi “tifosi” a tavolino, se si cominciassero a togliere dei punti in classifica: se ogni volta che i tifosi fanno di queste bestialità, allo loro squadra venissero tolti 10 punti in classifica, le società interverrebbero prontamente e decisamente per far smettere queste “tifosi”. Motivo? Perdendo molti punti in classifica non raggiungerebbero gli obiettivi prefissati (vittoria del campionato, qualificazione alle competizioni europee) e questo comporterebbe perdite di decine di milioni di euro nel bilancio delle varie società: l’unico modo oramai per far agire le persone è fargli perdere dei soldi, l’unica cosa che per loro ha importanza.
I mezzi per cambiare la realtà ci sarebbero, ma la verità è che non si vuole cambiare la realtà. Si vuole invece continuare a prendere in giro.
Brîsa ciapér pr al cûl!

L’abito fa il monaco

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«Se vuoi diventare uno scrittore, devi fare due cose soprattutto: leggere molto e scrivere molto.»
Così scrive Stephen King in On Writing. Chiunque scrive sa che deve partire da questo (la conoscenza della propria lingua è qualcosa che dovrebbe essere scontata, ma da quello che si vede in giro, tanto scontata pare non essere): è uno dei primi suggerimenti che si dà a chi vuole seguire questa strada.
Si deve leggere molto perché ci si arricchisce non solo di storie, ma anche del modo in cui vengono mostrate, s’imparano i trucchi usati da altri scrittori per creare dialoghi, descrizioni; un modo di apprendere che vale molto più di tanti sedicenti corsi di scrittura creativa a pagamento.
La teoria, si sa, da sola però non basta: necessita anche la pratica. Per questo occorre scrivere molto, perché così facendo ci si allena e si acquisiscono quegli automatismi che fanno comprendere quando un testo è buono e quando è da migliorare.
Un consiglio che dovrebbe essere sempre giusto, a prescindere da chi lo dà.
Invece le cose non stanno così.
Detto da Stephen King, considerato da molti un maestro in campo letterario, questo consiglio viene ritenuto ottimo. Detto da una persona che non possiede la sua fama (o peggio, nessuna fama), il consiglio spesso viene ritenuto di nessun valore.
Eppure la sua validità è sempre la stessa. Conta davvero allora chi la pronuncia?
In molti casi, sì: una frase detta da una persona invece di un’altra, assume un altro valore. In questi casi è allora d’obbligo dire che l’abito fa il monaco. No, non c’è nessun errore: si è voluto proprio scrivere questo. Si sa che il detto originale è l’abito non fa il monaco, ma nella società attuale vale il contrario. Soprattutto in Italia. La maggior parte delle persone, per una visione distorta della realtà, ritiene che chi si trova in certe posizioni abbia più ragione, più esperienza, conoscenza di altri: non valuta il valore dell’individuo, si ferma al ruolo in cui chi ha davanti ricopre nella società. Quindi anche una cosa sbagliata, se detta da certe persone, diviene giusta.
Complesso d’inferiorità, sudditanza nei confronti di chi ha soldi o potere o ruoli di prestigio: queste sono solo alcune delle cause che fanno comportare in questa maniera. Anche l’idealizzazione ha sua parte di responsabilità: spesso si proiettano all’esterno non solo le parti peggiori di sé, ma anche le migliori, attribuendole appartenenti solo agli altri; una mancanza di fiducia in sé che fa perdere molte cose.
Se si facesse diversamente, ascoltando e sapendo valutare meglio, allora forse il mondo sarebbe un luogo migliore.

Intervista su Leggere Distopico.

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Per chi fosse interessato, segnalo che sul sito Leggere Distopico c’è una mia intervista inerente L’Ultimo Potere e L’ultimo Demone.
E già che ci si è, se interessa il genere distopico e post-apocalittico, suggerisco di dare un’occhiata agli altri articoli di Leggere Distopico: sono interessanti.

Brîsa ciapér pr al cûl 10

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Ormai è palese che in questa società si voglia sfruttare chiunque, in qualsiasi luogo e contesto. Sembrava un’esagerazione quando scrivevo che si vuole che la gente lavori gratis, quasi un voler tornare ai tempi della schiavitù. Eppure, sempre più ci sono prove che dimostrano che quanto detto non sia un’esagerazione.
L’ultima in ordine di tempo è l’alternanza scuola/lavoro. Secondo il ministro Fedeli questo mezzo è “un’innovazione didattica importante. Uno strumento che offre agli studenti la possibilità di acquisire competenze trasversali e di orientarsi con più consapevolezza per il futuro di studi e lavoro”.
Ma che competenza e orientamento possono nascere nel lavorare gratis da sguattero per McDonalds?
L’unica cosa utile ce l’ha l’impresa, che ha manodopera praticamente gratuita, vedendo realizzato il sogno degli imprenditori: avere lavoratori che non costano nulla. Infatti alla fine verrà dato qualche credito allo studente che ha lavorato per lei.
Si vuole degradare lo studio a manodopera di basso costo per favorire (come sempre) enti, privati e impresi.
Sfruttamento. Sfruttamento. Sfruttamento
Che percorso può fare uno studente lì dentro? Che cosa può apprendere a parte pulire i tavoli e cuocere cibi già pronti?
Questa è l’istruzione che si vuole dare in futuro? Un’istruzione sempre più scadente e limitata?
Allora è vero che vogliono dare meno conoscenza e mezzi per pensare ai ragazzi, creando gente più ignorante e di conseguenza più manipolabile e controllabile.
Non se ne può più di queste continue prese in giro. Anzi, sono peggio che prese in giro perché non fanno altro che degradare e peggiorare la vita delle persone, dimostrano la considerazione che si hanno digli individui: meri oggetti da usare indiscriminatamente.
Chi pensa e decide queste cose dovrebbe essere licenziato in tronco, ricordandogli una cosa importante: il lavoro va sempre pagato. Senza distinzioni di sesso, età e nazionalità.
E, come sempre, Brîsa ciapér pr al cûl!

Un tempo per ogni cosa

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Un tempo per ogni cosa è un racconto con il quale ho partecipato al Mezzogiorno d’Inchiostro numero 103 del sito Writer’s Dream.

Sento il cuore che pompa con forza, il sudore che scivola sulla fronte, finendomi su un occhio. Ansimo mentre accosto e mi fermo oltre la linea bianca della strada. Prendo la borraccia e bevo: piccoli e lenti sorsi, perché se bevo troppo e troppo velocemente alle volte arriva una stretta all’altezza dello sterno, come se ci fosse una mano invisibile che vuole chiudere il passaggio dell’acqua; una sensazione che dura poco, un paio di secondi, ma abbastanza da essere sgradevole.
Alzo lo sguardo: mancano una cinquantina di metri alla cima. Il tratto con pendenza maggiore, come se la salita non fosse stata già abbastanza dura di suo: ha cominciato a tirare da subito e non ha mai dato tregua, aumentando sempre più la sua ripidità.
Lascio andare un lungo sospiro: coraggio, devo ripartire. Spingo sui pedali, riprendendo a muovermi. Le ruote girano lentamente mentre sbuffo; ha davvero ragione quello che cantava Ma quanto è dura la salitaaaa…chissà se gli è venuto in mente mentre andava in bicicletta…com’è pure che si chiamava? Il nome mi sfugge…eppure è uno famoso… provo a pensarci ma niente; pazienza, guarderò su Google quando tornerò a casa.
Faccio un ultimo sforzo e raggiungo la cima. Guardo l’orologio: ci ho messo venti minuti a percorrere il tratto. Certo, ci avrei messo meno se avessi potuto fare dei fuori sella, ma il mio ginocchio non me l’avrebbe perdonato.
Ehi, sei per caso impazzito? Non sei più un giovincello per fare queste robe: lo sai bene che sono acciaccato e non posso sopportare certi sforzi. Ma tu a me non badi, pensi solo fare il fenomeno. Continua così e una di queste volte ti lascio a piedi; dopo sono cazzi tuoi.
In fondo non ha tutti i torti, non ho avuto molto riguardo per lui: anche quando mi lanciava dei segnali, non ci badavo.
Supero l’ultima curva e il paesaggio fatto di campi e colline mi si apre davanti. La strada ora scende in un susseguirsi di curve a gomito. Inizio la discesa, ma vado giù con i freni tirati: sudato come sono, non vorrei andando troppo veloce prendermi un colpo d’aria. Per questo, oltre alla tuta, mi sono messo anche una giacchetta leggera proprio per prevenirli.
Sarà meglio, perché se non mi tratti con i dovuti riguardi, lo sai che poi comincio ad andare come un fosso. E tu dopo sei nella merda. Letteralmente.
Non posso dare torto al mio intestino. Inoltre non mi diverto più a scendere come un matto lungo le discese, gobbando come un porco a ogni curva. Anzi, dopo aver visto un mio amico investito mentre sfrecciava in discesa, devo ammettere che la velocità mi spaventa.
Mollo i freni: ho raggiunto la pianura. Riprendo a pedalare, ma senza fretta. Oggi è una bellissima e luminosa giornata d’autunno: querce e faggi sono accesi di mille sfumature di giallo e di rosso. Il verde degli abeti sembra risplendere ancora di più. In cielo sottili nubi bianche veleggiano sfiorando la cima delle montagne in lontananza. Lungo il marciapiede ci sono i frutti caduti degli ippocastani.
Due caprioli, una madre e il suo piccolo, attraversano la strada. Si fermano in mezzo al campo alla mia sinistra, fissandomi come se fossi un animale strano. Non posso dire che non abbiano ragione: con il casco sembro l’Alien di Ridley Scott.
Osservo il loro allontanarsi mentre un gruppo di cinque ciclisti mi supera di slancio. Qualche anno fa la mia indole competitiva mi avrebbe spinto a mettermi sulla loro scia come un lupo che insegue la preda; ora li lascio andare per la loro strada. Proseguo al mio ritmo tranquillo, fermandomi ogni tanto a scattare qualche foto al paesaggio.
«Passa!»
«Ma che cazzo di lancio fai!»
«Dovevi scattare prima!»
Possono passare gli anni, gli interpreti, ma certe cose non cambiano mai. Imbocco la strada sterrata e raggiungo il parco antistante al campo di calcio: là un gruppo di giovani in pantaloncini e a torso nudo corre dietro a un pallone. Non è una giornata fredda, anzi, però stare in quel modo mi pare eccessivo. Sorrido. Si vede che non sono più quello di una volta. anch’io alla loro età facevo lo stesso. Forse era un po’ narciso, forse un po’ esibizionista, ma mi piaceva sentire il sole sulla pelle; soprattutto mi facevano piacere i complimenti.
Ma chi cazzo sei? Robocop?
Questa era la battuta che partiva quando mi toglievo la maglietta: le ore di palestra mi avevano fatto saltare fuori un bel paio di pettorali. E questo lo notavano anche le ragazze che venivano a vederci; eccome se lo notavano. I loro sguardi erano molto eloquenti e questo non poteva che farmi piacere. Qualche anno dopo non sarebbe stata la stessa cosa, dato che mi accorsi che di me vedevano solo quello: non era bello essere considerato un uomo oggetto.
Appoggio la bici a un albero, mi sfilo in casco e mi siedo sulla panchina più vicina; una decina di metri più in là dalla mia ce n’è un’altra con sopra un paio di vecchietti che guardano con la bocca storta i giovani.
«Proprio una bella roba!»
«Un’indecenza! Se ne stanno sotto il sole tutti svestiti, come se fossero dei maiali!»
«Ma sono dei maiali! Guarda come si mettono in mostra per quelle quattro poco di buono là!»
Volgo lo sguardo verso le gradinate una ventina di metri più in là: un gruppetto di ragazze ridacchia mentre si fanno vedere qualcosa sugli smartphone.
«Dio li fa, poi li accoppia! Guarda come sono vestite!»
«Che schifo! Ai miei tempi non si vedeva nemmeno la pelle della caviglia!»
Osservo meglio, ma non vedo nulla di strano: si vestono come ragazze della loro età. Sorrido davanti alla scena dei due vecchietti inviperiti: il tipico comportamento di chi disprezza qualcosa perché non lo può avere.
«Troie!» sbotta più forte del normale uno dei due.
Una ragazza alza lo sguardo dal cellulare e guarda a disagio i due; vedo che vorrebbe ribattere, ma lascia perdere.
«Hai visto quello che è arrivato adesso? Cosa viene a fare qui?»
«Te lo dico io: quelli che vengono qui sono o busoni o pedofili.»
«State parlando per caso di voi stessi?» dico candidamente voltandomi verso di loro.
Serrano la bocca come se avessero ingoiato un moscone. Poi si alzano in piedi scatto e si avviano verso la strada, non prima però di avermi lanciato un’occhiata di traverso; li saluto agitando una mano e sfoggiando il mio più smagliante sorriso da presa per il culo.
Faccio per tirare fuori il libro che ho nella tasca della giacca, ma vedo la ragazza che si era voltata verso i due avvicinarsi.
«Cosa ha detto a quei vecchiacci? Nessuno riesce mai a farli stare zitti.»
«Ho usato la loro stessa moneta.»
«Io non avrei avuto il coraggio di farlo.»
Avrà circa quindici anni. «Nemmeno io lo avevo alla tua età. Ma il bello della mia età è che te ne freghi di molte cose; soprattutto dai agli altri quello che si meritano, senza farti troppi scrupoli.»
«Forte…» volge lo sguardo verso la mia due ruote. «Le piace andare in bici?»
«Mi rilassa.»
Mi guarda per niente convinta. «Non è faticosa?»
«Alle volte: è un po’ come la vita.»
«Ah» fa perplessa: so che le sfugge il senso delle mie parole. E che le sfuggirà ancora per degli anni; ma con il tempo le comprenderà. «Ora la saluto: torno dalle mie amiche.»
«Ciao.»
Apro il libro, ma non comincio a leggere: penso alla vita e alle sue età. La fanciullezza con i suoi sogni. La gioventù con la sua carica d’energia. L’età adulta con la maturità acquisita dalle esperienze. La vecchiaia con il suo non dover più dimostrare niente a nessuno.
Alzo gli occhi e guardo i giovani: una volta stare in panchina e guardare gli altri giocare mi avrebbe fatto soffrire. Ora è qualcosa di confortante, perché capisco che c’è un tempo per ogni cosa. Non è poi così male non avere così tante energie da buttare via, perché ci si focalizza su ciò che è davvero importante. Sorrido mentre inizio a leggere: non tutto ciò che si perde è un male.

Marvels

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Marvels – L’Era degli Eroi, l'opera fumettistisca scritta da Kurt Busiek e disegnata da Alex RossIn questi ultimi tempi pare che il fumetto stia venendo rivalutato; tuttavia il cambiamento è lento e i pregiudizi sono duri a morire, specialmente quando si tratta del genere fantastico e supereroistico. Eppure, negli anni di opere che hanno dimostrato quanto questo tipo di narrazione possa essere profonda e di spessore ce ne sono state. Una di queste è Marvels – L’Era degli Eroi, scritta da Kurt Busiek e disegnata da Alex Ross. In quest’opera che confonde realtà e fantasia, i supereroi ci sono ma rimangono sullo sfondo, con protagonisti le persone comuni e le loro reazioni dinanzi a qualcosa di fuori dal comune, terrificante e meraviglioso: le Meraviglie (Marvels), come le chiama il fotografo Phil Sheldon. È attraverso di lui che vengono riportate le reazioni delle persone dinanzi alla comparsa dei supereroi; negli anni della sua carriera in ambito giornalistico vengono mostrati i sentimenti della gente comune dinanzi a qualcosa che va oltre il razionale. Dalla comparsa della prima Torcia Umana e quella di Namor agli X-Men, dai Fantastici Quattro a Capitan America e i Vendicatori, da Silver Surfer e Galactus a Spider-Man, Phil prova emozioni controverse: stupore, ammirazione, paura. Soprattutto però prova un senso di solitudine dinanzi a esseri viventi che non vengono compresi, ma che sono spesso accusati, perseguitati e costretti a vivere in solitudine per la loro diversità. Nello sguardo critico, che si fa però anche coinvolgere, di Phil non c’è l’epicità, l’esaltazione, delle imprese eroiche che spesso si crede di dover incontrare nei fumetti di supereroi: c’è spesso amarezza, delusione, per come il mondo agisce contro individui che non hanno avuta scelta, vuoi per nascita (Namor, la Torcia Umana, i Mutanti), vuoi per strani giochi del destino (Spider-man). Ma c’è anche paura che la sua famiglia venga coinvolta dalle lotte cui devono far fronte i supereroi o subisca la follia e l’isteria della gente impegnata a dare la caccia al diverso, come quando ospitano una bambina mutante.
Marvels, anche se appartiene al genere fantastico, è una storia che parla del reale; proprio per questo come disegnatore è stato scelto Alex Ross, famoso per il suo tratto iperrealistico. Con una gran cura per i dettagli, Ross per le sue tavole spesso ha fatto uso di persone per rendere al meglio i ritratti dei personaggi di Marvels, per riuscire a trasmettere l’umanità che si cela dietro una storia fantastica. Ma non è solo questo: mostra anche il cambiamento dei tempi, dato che la storia copre un arco di alcuni decenni. Si passa così dagli eroi che aiutano l’esercito americano a combattere i nemici della Seconda Guerra Mondiale (quindi visti come salvatori e liberatori), agli eroi caduti dal piedistallo, visti come a minaccia, che mostrano limiti e debolezze, segnando così la fine di un’innocenza che li voleva vedere perfetti e sempre vincitori.
Se a questo si aggiunge che le vicende di Phil Sheldon sono inserite perfettamente in storie realmente pubblicate dei supereroi, non si può non costatare che Marvels è una lettura davvero di spessore e che merita di essere fatta.

Essere ghianda

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È bello
Essere ghianda.
Non avere pensieri
Non avere preoccupazioni
Non avere incombenze.
Vivere senza badare al tempo
Limitandosi a crescere
Con calma
Senza pressioni.
E quando giunge il momento
Lasciarsi andare
E cadere in un volo veloce
Verso una fine
Che sarà un inizio.

essere ghianda

Promozione d'ottobre

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Per tutto il mese di ottobre Strade Nascoste, L’Ultimo Potere, L’Ultimo Demone e Jonathan Livingston e il Vangelo saranno in promozione sugli store con uno sconto del 50%, ovvero potranno essere acquistati a 0.99 E anziché 1.99 E.

L'umiliazione di un padre

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Racconto che ho scritto per il contest Mezzogiorno d’Inchiostro 102 di Writer’s Dream con tema L’umiliazione.

«Papà, quando mi compri il nuovo smartphone?»
«Se vai bene a scuola, allora ci penseremo.»
«Ho la sufficienza in tutte le materie.»
«La sufficienza non basta: devi avere almeno sette in tutte le materie. Se alla fine dell’anno scolastico avrai ottenuto questo risultato, allora vedremo di prendere lo smartphone.»
«La fine dell’anno scolastico?! Ma dovrò aspettare dei mesi!»
«Le cose bisogna guadagnarsele.»
«Ma ai miei amici i loro genitori l’hanno già comprato!»
«Loro fanno in un modo, io un altro.»
«Ma…»
«Niente ma: questo è quanto.»
Vidi Matteo fremere stizzito, i pugni chiusi, le labbra serrate. Fece per voltarsi e lasciare la stanza, ma poi ci ripensò. «La tua è una scusa perché non hai soldi per comprarlo.»
“Prima o poi l’argomento sarebbe stato toccato: Matteo non è uno stupido. Certo non occorre un genio per capire che la situazione è cambiata: è fin troppo chiaro.” Posai gli attrezzi con cui stavo riparando il lavandino e mi voltai a guardarlo negli occhi. «È vero, in questo periodo i soldi sono meno e quelli che ci sono servono per l’indispensabile: bollette, spese per la casa, la scuola, l’auto. Non ne rimangono per altro.»
«E tutto perché hai perso il lavoro.» Le parole di Matteo erano un’accusa spietata.
«Sì.» Non era bello da dire a voce alta, ma questa era la realtà.
«Allora trovane un altro!» La rabbia di mio figlio era appena trattenuta.
Capivo il suo stato d’animo: stare in mezzo a ragazzi con possibilità economiche migliori, essere quello che ha meno degli altri, può essere umiliante. E quando si ha a che fare con figli di papà che non si fanno scrupolo di farlo notare in continuazione, può esserlo ancora di più. Per questo ho sempre avuto remore nell’avere figli: non volevo che ripetessero la mia stessa esperienza. Nella mia famiglia d’origine solo mio padre lavorava, ma i miei non mi hanno mai fatto mancare l’indispensabile; anch’io avrei voluto di più, ma capivo che di più non potevano fare. Non lo capivano invece quelli con cui andavo a scuola, abituati ad avere tutto quello che chiedevano: per questo le denigrazioni e le prese in giro erano una costante. L’adolescenza può essere tante cose: l’età dei sogni e delle speranze, ma anche il periodo in cui si è più bastardi e crudeli. E oltre a umiliare, la bastardaggine può ferire in modi che segnano a lungo, lasciandoti diffidente e sfiduciato verso gli altri e il mondo.
Quando ho conosciuto Anna, vedendo che avevamo la stessa visione della vita, ho pensato che i miei timori potevano essere superati, che la storia non si ripetesse. Ci siamo impegnati perché a Matteo non mancasse nulla; ci abbiamo provato con tutta la nostra buona volontà. Ma spesso la vita se ne frega della buona volontà; soprattutto se ne fregano gli altri. In un mondo dove contano la riuscita, il prevalere e il prevaricare, il crescere un figlio perché diventi un individuo equilibrato, che sappia stare in piedi da solo e pensare con la propria testa, è qualcosa di molto difficile. Sarebbe più semplice dargli tutto quello che vuole come fanno in tanti, ma sarebbe uno sbaglio, perché non gli si fa capire il senso della conquista, della responsabilità; non gli si insegna il senso della vita, come affrontarla, come resistere ai suoi colpi, a tenere duro e a rialzarsi quando ti sbatte per terra. Non è facile far comprendere questi valori a chi è giovane, specie se ha a che fare con coetanei che simili valori non hanno avuto.
«Non è così semplice trovarlo.»
Come trovare le parole giuste senza che sembrino delle scuse?
La crisi ha portato la perdita di molti posti di lavoro e le politiche dei governi non hanno certo agevolato a creare nuova occupazione. Quando ero giovane, chi era alle prime armi come me faceva fatica a trovare un’occupazione perché le ditte cercavano lavoratori con anni d’esperienza; ora che sono vicino a cinquant’anni e ho accumulato esperienza, essa è diventata inutile, perché le ditte cercano giovani sotto i ventotto anni, visto che costano meno con le agevolazioni.
Con il senno di poi, avrei dovuto finire l’università; magari con una laurea avrei avuto maggiori sbocchi, soprattutto all’estero. Invece ho preferito lasciare gli studi e andare a lavorare: non sopportavo l’idea di farmi il mazzo e vedermi passare davanti della gente che aveva raccomandazioni o i cui genitori erano amici dei professori. Era una cosa che mi faceva incazzare: valere più di loro, sapere le cose meglio di loro e non avere i loro voti era qualcosa che mi faceva andare fuori di testa. Senza contare che protestare non sarebbe servito a nulla: la moltitudine dava il suo assenso silenzioso perché fare diversamente avrebbe portato solo a derisioni, a passare per invidiosi, nella migliore delle ipotesi; nella peggiore si sarebbe avuto la vita impossibile perché, anche se la verità era sotto gli occhi di tutti, non bisognava dirla. Tanti la pensavano come me, ma nessuno osava fare nulla, preferendo subire, cercando di tirare avanti alla meno peggio. La rassegnazione, il lasciar fare, quando in mano si avevano tutte le carte per cambiare la situazione, erano cose che non digerivo: per me erano uno sminuire il valore di una persona. Potevamo essere un fronte compatto se ci fossimo uniti: saremmo stati una forza non indifferente, che poteva essere ascoltata. Invece, tutti hanno preferito non combattere; hanno perso senza nemmeno giocare. Visto questo modo di fare, ho lasciato l’università disgustato. Ma mi sono sempre portato dietro un senso di sconfitta, di aver mancato l’occasione di poter fare qualcosa se mi fossi battuto.
Così è stato anche quando ho perso il lavoro.
Avevamo le prove che la ditta giocava sporco, faceva mobbing sulle persone di cui si voleva sbarazzare per ridurre i costi: potevamo agire, cambiare la situazione. Ma i miei colleghi erano rassegnati, hanno subito senza alzare la testa: non si sono voluti unire, non hanno voluto fare causa alla dirigenza per non avere grane, per continuare ad avere la vita tranquilla, convinti che tanto si sarebbe trovato un altro posto di lavoro. Così ci hanno sbattuto fuori come cani bastonati, lasciati a noi stessi perché anche il sindacato se n’è fregato visto che subivamo senza fare nulla. Avremmo potuto far valere i nostri diritti e avere ancora un lavoro; invece nessuno di quelli licenziati da allora ne ha più trovato uno.
“E adesso sono qui, un disoccupato ormai non più giovane che cerca di far ragionare un giovane arrabbiato perché non può essere come gli altri.”
«Beh, cerca di darti da fare!» Matteo aprì la porta, mandandola a sbattere contro il muro. «Non mi va di farmi prendere per il culo per colpa tua!» Si fermò nel corridoio. «Hanno ragione gli altri: non è bello essere figlio di un fallito» sibilò prima di scendere le scale.
Come spiegare al proprio figlio che ci sono cose più importanti dei soldi, che la vita è molto di più di quello che può comprare il denaro? Chi non passa attraverso questa esperienza non sa che boccone amaro è non riuscire a comunicare con lui, non trovare le parole perché eviti certi sbagli e comprenda determinate realtà. Non è facile accettare che i discorsi alle volte non servono, che solo vivendole personalmente si posso comprendere certe lezioni, perché l’esperienza non può essere trasmessa, ma solo acquisita vivendola. Anche se lo si desidera, non gli si possono evitare sofferenze e amarezze, non lo si può proteggere dal peggio che c’è nel mondo.
Questa, di tutte le esperienze affrontate, è la più dura da accettare. E solo un padre può capire quanto è umiliante.