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Libro cartaceo vs. e-book

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Al giorno d’oggi la lettura di un articolo o un’opera non è più solo affare cartaceo, ma grazie allo sviluppo tecnologico è possibile leggere anche sullo schermo di dispositivi come desktop, cellulari, i-pad, i-phone, e-reader.
In rete molte sono le opinioni a favore dell’uno o dell’altro. Riassumiamo i pro e i contro di ciascuna versione.

Libro cartaceo

Libro cartaceo

Pro

– La sensazione tattile di avere un oggetto in mano, il piacere di sfogliare le pagine.
– Se cade a terra i rischi che si danneggi seriamente sono minimi.
– Anche se si danneggia, si può ripararlo da soli (in caso di strappo di una pagina si usa nastro adesivo, la colla se avviene un distacco della medesima dalla rilegatura).
-Salvo proprie dimenticanze, il libro cartaceo non può essere perso, rimane nella libreria dove si è messo e lo si può sempre trovare (si vedrà in seguito il motivo di tale precisazione).
– Non dipende dall’energia elettrica: in una ipotetica lunga assenza di tale fonte che porti a non poter utilizzare i dispositivi elettronici, il libro potrà sempre essere letto.

Contro

– Il costo. Come tutte le cose, il libro sta diventando sempre più caro, visto specialmente che non è un bene primario (ci sarebbe da precisare che cultura e conoscenza sono indispensabili, anche se non rientrano negli elementi primari della sopravvivenza, perché è importante pure il come si vive, cosa che la consapevolezza è in grado di dare).
– Occorre avere spazio dove poterlo mettere.
– Se si vogliono ritrovare brani particolari si devono usare segnalibri.
– Se si vuole ritrovare un brano ma non ci si ricorda il punto esatto (e non lo si è segnato da qualche parte) si impiega tempo e fatica per ricercarlo.
– Occorre spolverarlo perché prende polvere.
– A meno che non lo si ordini su internet e lo si faccia consegnare a casa propria, occorre spostarsi per reperirlo.
– Se non lo si trova subito in libreria, occorre ordinarlo e aspettare che arrivi (con tempi che vanno da pochi giorni a qualche mese).
– Toglie spazio in valigia se si vuole averlo con sé in vacanza o per qualsiasi motivo per il quale occorra viaggiare ( e più di tanti non se ne può portare perché possono divenire letteralmente un peso).
– Se è usato un carattere di stampa piccolo, si possono avere difficoltà di lettura e un maggiore affaticamento degli occhi.
– I magazzini possono esaurire le stampe del volume che si vuole.
– Può andare fuori catalogo e per questo divenire difficile reperirlo.

E-Book

ereader, dispositivo per leggere e-book

Pro

– Il costo più basso della versione cartacea. Una volta acquistato il dispositivo su cui leggere il file, si ha un notevole risparmio, specie se si è accaniti lettori.
– Non ha bisogno di spazio, dato che è un semplice file che sta all’interno di un dispositivo elettronico.
– Non ha alcun peso per la ragione specificata nel punto sopra.
– Si possono avere sempre con sé centinaia di opere.
– Non si esaurisce mai, è sempre reperibile e non va fuori catalogo (a meno che non venga tolto dallo store in cui viene venduto).
– La possibilità di modificare il carattere di lettura, per avere una lettura più piacevole, con conseguente minore affaticamento della vita.
– Se si vuole ritrovare un brano, con la funzione “cerca” lo si ha subito a disposizione, senza sforzi di memoria o ricerche andate a vuoto.
– Quando lo si vuole acquistare, lo si ha subito a propria disposizione, senza spostarsi da casa, basta avere una connessione internet e una carta di credito.
– Se si sta leggendo un testo in una lingua diversa da quella di origine, ci sono dispositivi che hanno integrati vocabolari per tradurre i termini che non si conoscono all’istante.
– Possibilità di mettere note e segnalibri in modo molto più pratico rispetto a come si fa con il cartaceo.

Contro

– Se il dispositivo ha la batteria scarica, non si può leggere nulla.
– In una ipotetica lunga assenza di energia elettrica che porti a non poter utilizzare i dispositivi elettronici, non si può leggere nulla.
– Dipendenza da un dispositivo elettronico.
– Cosa difficile, ma se il file si danneggia non può essere riparato.
– Se il dispositivo su cui si legge cade a terra, le possibilità che i danni siano maggiori di quando cade un libro sono più elevate: i componenti elettronici sono più delicati della carta e più sensibili a urti e acqua.
– Se il dispositivo elettronico si danneggia, occorre l’intervento di un tecnico, difficilmente si è in grado di ripararlo da soli, a meno che non si abbiano le conoscenze e i mezzi per attuare la riparazione; questo significa che si può restare senza letture per un certo tempo, dato che l’intervento tecnico può richiedere tempo (carichi di lavoro precedenti da smaltire, far arrivare i componenti necessari per la riparazione nel caso non si abbiano a disposizione).
– E’ vero che le case produttrici asseriscono di testare a lungo i dispositivi elettronici su cui si legge (e-reader, i-phone, i-pad), ma è anche vero che molte tendono a voler ridurre i costi, a discapito della qualità: un prodotto elettronico può presentare una difettosità che crea malfunzionamento e per la quale occorre l’intervento di un tecnico.
– Può succedere che lo store dove si sono acquistati gli e-book blocchi l’utente.
– Se si è clienti Amazon e a un certo punto non si vuole più esserlo, cancellando la propria registrazione e volendo migrare verso altri lidi, non è più possibile leggere gli e-book che si hanno, perdendo tutta la propria libreria: di questo bisogna ringraziare il DRM (dispositivo di protezione). L’e-book è considerato un servizio, non un libro, e pertanto, se si rompono in contatti con chi ha erogato il servizio, si perde tutto e non resta nulla in mano, solo file inutilizzabili.

Da questa analisi, il libro fisico risulta essere inferiore come tecnologia all’e-book, meno pratico e immediato, data la multimedialità della versione elettronica, e pertanto uscirne sconfitto. Ma ci sono fattori che lo fanno rivalutare, dato che una volta acquistato, l’utente non deve dipendere da nessuno e non deve sottostare ai capricci della tecnologia o di colossi come Amazon che possono decidere di bloccare il servizio da dare a un utente (cosa difficile, dato che una cosa del genere comporterebbe una pubblicità negativa, con conseguente perdita economica, ma non impossibile).
Se è vero che la tecnologia è una gran cosa, occorre ricordare che dipendere troppo da essa non è mai un bene; soprattutto occorre ricordare che dare troppo potere a colossi come Amazon, che vogliono monopolizzare il mercato con la sua tattica aggressiva e speculativa per essere gli unici fornitori e rendere dipendenti a sé e ai suoi prodotti i clienti, può portare a scenari rientranti in quelli descritti in 1984 di George Orwell.

Necknominate: l'ennesima idiozia umana

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necknominateLe catene sono sempre esistite: prima si facevano per lettera, poi per sms, per mail e ora passano attraverso i social e i video.
Ultima catena che va tanto di moda ora, è quella per la raccolta fondi contro la Sla dove ci si versa addosso una tinozza d’acqua gelata. Secondo tanti un’iniziativa giusta (si può non essere concordi con tale affermazione) per una giusta causa (su questo si è tutti d’accordo) (sperando che l’intera raccolta di soldi vada alla ricerca), anche se ci sono modi migliori e più seri per raccogliere fondi senza far sì che diventi una moda dove mettersi in mostra, farsi notare e avere cinque minuti di notorietà.
Della stessa tipologia è il Necknominate, con la differenza che risulta molto più stupido, ma soprattutto molto più dannoso.
Di che cosa si tratta?
E’ l’ultima sfida su Facebook e che si sta diffondendo tra i teenager (ma colpisce anche più giovani di questa età): si viene nominati come al Grande Fratello (e si è pure orgogliosi di questa nomination) e secondo le regole non scritte di questo social network bisogna partecipare, altrimenti non si è nessuno. Il tutto è molto semplice: ci si filma mentre si beve tutto d’un fiato un boccale di birra (neck indica appunto il collo della bottiglia di birra), si posta il video e poi so nominano due prescelti che entro ventiquattr’ore devono fare altrettanto. Ma non ci si limita al boccale di birra: lo si sostituisce anche bicchieri di vodka o creando intrugli con superalcolici (pubblicando anche la ricetta dopo averla bevuta).
Non bastasse l’alcol utilizzato come collirio al ‘binge drinking’, i drinking games, i tradizionali giochi da tavola utilizzati nelle varianti alcoliche a vere e proprie sfide a chi si ubriaca di più, adesso dall’Australia è giunta pure questa deleteria moda. Tanti si giustificano che lo fanno tutti, che una birra non fa male, che tutti almeno una volta si sono ubriacati, cercando di far passare per normale qualcosa che invece normale non è, non considerando il pericolo che possono avere i superalcolici sul corpo di un adolescente: non sono rari i casi di ragazzi andati in coma etilico, arrivando anche al caso in Inghilterra di un bambino di dieci anni morto a causa di tale gioco.
Anche se non lo si vuol far vedere, il fatto è grave.
Uno, perché dimostra quanto è grande il potere che ha il branco sul singolo e quanto sono influenzabili e deboli i giovani, non supportati da un’educazione adeguata.
Due, perché dimostra la mancanza di coraggio di non partecipare a una vera e propria idiozia, abbruttendosi e imbarbarendosi fino a non sapere più nemmeno chi si è.
Tre, perché si sottovalutano i danni che l’alcol può causare ai giovani (morte, coma, dipendenza), senza contare sul fatto che oltre a un pericolo per sé, i giovani in questo stato sono un pericolo anche per gli altri.
Quattro, perché si dimostra il vuoto di valori che esiste e quanta importanza ha l’apparire.
Cinque, perché se è su questi giovani che si deve costruire la prossima società e il futuro, si è messi davvero male e non c’è speranza: non bastassero i danni fatti dalla precedenti cosiddette “classi dirigenti”, altri se ne andranno ad accumulare, scivolando ancora più in basso.
O si mette la testa a posto e la si smette con il permissivismo, i metodi di Benjamin Spock, e si comincia davvero a seguire i giovani, a educarli, a dare dei no decisi quando serve, oppure lo scenario è davvero fosco.

Archetipi - Il numero Quattro

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Il numero quattro« Certe cose », ha scritto il dott. Jung, « non possono divenire oggetto di pensiero, ma devono sorgere da lontane profondità, per esprimere gli atteggiamenti più profondi della coscienza, e le più sublimi intuizioni dello spirito, armonizzando in tal modo il carattere di unicità e irripetibilità della coscienza legata all’esperienza immediata, con l’arcaicità del passato dell’umanità ». (1)
Questa realtà, così ben spiegata da Carl Gustav Jung, accompagna da sempre l’uomo e i modi in cui ha cercato di trovare risposte sulla sua natura, sulla vita, usando simboli e proiezioni per giungere alla comprensione.
Di simboli, miti e religioni sono ricchi, al punto che anche in architettura la proiezione del contenuto psichico costituiva un processo puramente inconscio: città, fortezze, tempi, hanno avuto una specifica influenza sull’uomo che le vedeva. Per esempio, simbolo centrale della religione cristiana è la croce e a seguito di questo le chiese sorgevano all’incrocio delle due arterie principali che dividevano la città e che immettevano agli sbocchi delle quattro porte: questo era il modo per indicare che la città aveva un centro (mundus, che significa anche cosmo), valente a stabilire il rapporto della città e dei suoi abitanti con l’altro mondo, il regno e la dimora degli spiriti ancestrali. (2)
Come già si è visto in un altro post, il quattro ha una forte ricorrenza: i quattro evangelisti e la Trinità contrapposta a Satana, sempre restando nell’ambito cristiano, ma se si ricerca e si osserva con un poco di attenzione, si può vedere che è qualcosa di ricorrente, che salta fuori molto spesso, senza nemmeno rendersene conto. Il quaternario è il simbolo usato da Pitagora per comunicare il nome di Dio; nella religione ebraica il quattro simboleggia il Tetragramma biblico, cioè le quattro lettere che compongono il nome di Dio. Quattro sono gli elementi: fuoco, acqua, aria, terra. Quattro i punti cardinali: nord, sud, est, ovest.
Come si vede, il quattro è qualcosa presente in tutta la simbologia. Va fatto tuttavia notare che il punto di vista sul suo significato può cambiare: nella numerologia cinese (così come in altre lingue orientali) la parola “quattro” è omonima della parola “morte” e quindi il numero viene considerato sfortunato (un simbolo di morte che ben appare nel manga Berserk di Kentaro Miura con la Mano di Dio prima dell’arrivo di Phempt, dove i membri sono solamente quattro: dopo la trasformazione di Grifis a quinto membro, le cose in apparenza sembrano cambiate, ma le vicende sono ancora in divenire).
Che sia qualcosa d’inconscio, posso darne testimonianza per quanto riguarda le opere che ho realizzato. Ariarn, Periin, Ghendor e Reinor sono i protagonisti delle vicende di Storie di Asklivion – Strade Nascoste: non c’è stata progettazione in questo, è qualcosa che è nato naturalmente, venuto fuori in maniera istintiva. Certo, nella storia sono presenti personaggi che hanno un ruolo importante (Rentar, il Sorvegliante, Lerida: il loro aggiungersi porta a sette, altro numero importante), ma sono questi quattro personaggi con i quali la storia inizia, va avanti e termina. Con la conoscenza acquisita in seguito ad approfondimenti e letture varie, a posteriori ho riflettuto che ognuno di loro incarnava uno degli aspetti di cui tanto parlava Jung (intuizione, sensazione, pensiero, sentimento), ma quando ho cominciato a narrare le loro avventure non sono certo partito da questo presupposto, semplicemente fungevo da osservatore e riportavo quanto avveniva in quel mondo visto dalla fantasia.
Stessa cosa è avvenuto con L’Ultimo Potere, quando Guerriero si trova a entrare nel gruppo formato da Tempo, Spazio e Ombrosa.
Possono sembrare coincidenze, ma la parte inconscia lancia sempre segnali e il fatto che ricorra così spesso tale numero, che è simbolo di organicità e compiutezza, dimostra che anch’esso, come altri, è un archetipo che vuole portare a consapevolezza aspetti di cui è portatore.

1- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag.230. Tea 2010
2- L’uomo e i suoi simboli. Carl Gustav Jung, pag.229. Tea 2010

Mistborn: alcuni miti alla base della trilogia

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La saga Mistborn di Brandon Sanderson, oltre ad aver colpito per lo stile e la capacità dello scrittore statunitense di caratterizzare i personaggi e creare un mondo e una storia epica, ha suscitato interesse per il sistema di poteri usato: tali poteri infatti ruotano attorno ai metalli che persone con un particolare metabolismo sono in grado di assimilare, utilizzandoli per sviluppare capacità fuori dal comune. Questa è l’allomanzia, ma non è l’unico potere mistico della saga. Si ha la feruchemia, dove i Custodi immagazzinano in anelli e bracciali metallici capacità fisiche (velocità, guarigione, forza) e mentali (memorie) da utilizzare quando ce n’è bisogno, e l’emulargia, che trasmette i poteri di un allomante a un’altra persona attraverso un processo cruento utilizzando spuntoni metallici che si conficcano nei corpi.
Poteri che dai più sono considerati divini, tant’è che uno dei sedici metalli usati da queste tre capacità è il corpo di Rovina, uno dei due dei che ha permesso la nascita dell’uomo. Un’idea che può sembrare innovativa quella usata da Sanderson, perché nell’immaginario comune è qualcosa di poco conosciuto, ma esistono miti che narrano di come i metalli fossero parte di esseri divini.
Immagine di Gayomart nella mitologia persianaUn esempio di ciò viene dall’Antica Persia, dove il primo uomo, l’uomo dell’origine del mondo, chiamato Gayomart, veniva raffigurato come un essere di enorme statura, promanante luce. Quando morì, dal suo corpo sprizzarono tutte le specie dei metalli, e dalla sua anima nacque l’oro. (1)
Si può fare un’analogia a seguito di tale passo con l’associazione anima/oro con il potere nato dal consumo di tale metallo in Mistborn: l’anima, oltre come prezioso possesso di ogni individuo (l’insieme di tutte le qualità umane che fanno difetto nell’atteggiamento cosciente (2)), viene visto come orizzonte di conoscenza e infatti la capacità dell’uso di questo metallo è quello di far conoscere il proprio passato.
Altro elemento che ha avuto importanza nelle religioni, ma anche in psicologia, e che è usato in questa saga, è il numero 16: infatti, il numero 16, ha una particolare importanza risultando composto da quattro volte quattro, dove le manifestazioni più naturali e spontanee del centro psichico sono caratterizzate dal movimento quaternario – cioè a dire dal fatto che presentano quattro aspetti distinti (3). (Carl Gustav Jung ha sempre dato molta importanza al fatto che la psiche fosse divisa in quattro parti: intuizione, sensazione, pensiero, sentimento). Il numerico karmico 16 rappresenta la speranza di elevarsi, di distinguersi, eliminando le false impalcature create: è lampante tutto ciò in Il Campione delle Ere, quando Elendil capisce cosa significa la ricorrenza di tale numero e come da tale comprensione nasca la conoscenza per far arrivare degli uomini ad avere i poteri di un dio.
Sempre parlando di essere divini, altro mito simbolico dell’antica India che emerge nella lettura della saga è quello di Purusha o uomo cosmico, il “grande uomo” che riscatta l’individuo sollevandolo dal livello del mondo effettuale e delle sue miserie, a quello della sua eterna, originaria sfera. Nell’inno (X, 90) del Ṛgveda, detto anche Puruṣa sūkta, un inno del tardo periodo vedico, il Puruṣa è descritto come tanto vasto da coprire e lo spazio e il tempo; ma di questo essere immenso, che può essere visto come la personificazione della realtà ancora immanifesta, è visibile soltanto un quarto. Da questo quarto ebbe origine innanzitutto il principio femminile (virāj) e quindi l’umanità. Il Puruṣa venne poi steso per terra dai deva e offerto in sacrificio secondo il rito, affinché avessero origine il mondo, gli animali, le caste, altri dèi, e i Veda stessi. Il sacrificio è dunque l’atto col quale il mondo viene creato: l’Uomo cosmico, il Puruṣa, sacrifica una parte di sé per dare origine all’umanità e all’universo (fonte Wikipedia).
Da questa descrizione si comprende non solo come Preservazione dà vita agli uomini (il dio che sacrifica una parte di sé per far nascere gli esseri umani), ma anche l’elevazione finale cui va incontro Sazed quando comprende la verità nascosta dietro le profezie del passato (divenendo quello che qui è chiamato l’uomo cosmico).
Che Sanderson possedesse la conoscenza di queste storie o, come dice Jung, fosse qualcosa venuto dall’inconscio, non ha molta importanza, anche se può essere interessante saperlo: è importante invece come attraverso la storia creata dall’autore venga a galla una conoscenza che renda più consapevole chi la legge.

1- L’uomo e i suoi simboli. Carlo Gustav Jung, pag.180 . Tea, 2010
2- Vocabolario – Le parole dei mondi più grandi. Igor Sibaldi, pag.40. Anima Edizioni 2009
3- L’uomo e i suoi simboli. Carlo Gustav Jung, pag.180 . Tea, 2010

Storie di Asklivion – Strade nascoste : una recensione

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Storie di Asklivion - Strade NascosteSul suo blog, Gabriele Ninci (conosciuto in rete con il nickname Tanabrus) ha scritto la recensione di Storie di Asklivion – Strade nascoste.
Come scritto nel commento lasciato in risposta al suo post, mi sono trovato concorde con il punto di vista che ha espresso. L’avevo già scritto in un altro post, ero e sono convinto della bontà del lavoro svolto; questo non significa che non lo reputi migliorabile, anzi. Soprattutto la prima parte (proprio su questa la recensione pone attenzione) reputo che sia quella più lenta, che può coinvolgere di meno il lettore perché non s’addentra subito nel vivo della storia, ma ci si avvicina lentamente, in apparenza facendola sembrare slegata a essa, come se ogni capitolo iniziale dedicato a un singolo personaggio fosse un racconto a sé stante. Riprendendo le parole di Gabriele, può sembrare di leggere una storia di Sapkovski, come visto nelle antologie di racconti dedicati a Geralt di Rivia (anche se ai tempi in cui scrivevo quelle parti (2001) non avevo letto nulla dell’autore polacco, dato che non era stato ancora tradotto in Italia, cosa avvenuta solo dal 2010 in poi, e che io non leggevo romanzi in inglese all’epoca).
Perché usare un approccio del genere?
Quando ho iniziato a scrivere non avevo l’esperienza scrittoria acquisita negli anni e con le capacità di allora è stata a mio avviso la scelta migliore, puntando al non cercare di fare, o meglio strafare, ma al fare cose semplici: avere un approccio soft per permettere al lettore di ambientarsi e conoscere con calma il mondo e i personaggi. Non sono pentito di quella scelta, ma con l’esperienza acquisita nello scrivere, anche grazie a letture fatte in seguito (EriksonSanderson e Jordan allora non li avevo ancora letti, ma dalle loro opere c’è da imparare molto), più sintesi e un’alternanza maggiore in alcuni punti della prima parte tra azione e pensiero sarebbero stati appropriati; attualmente, se volessi modificare l’impostazione della prima parte basterebbe usare una costruzione differente che riassume molto senza perdere nulla (l’uso dei flashback, come fatto in seguito, permetterebbe una maggiore incisività). E non è detto che non lo faccia, proprio come ho fatto con Non Siete Intoccabili, anche se in questo caso si tratterebbe di un lavoro differente: occorrerebbe solo fare dei tagli, tenendo le parti più rilevanti, non dover riscrivere interi brani cambiando anche struttura della storia e dei personaggi; questo in Storie di Asklivion – Strade nascoste non è necessario, occorre solo velocizzare l’inizio.
Parlando d’esperienza, penso abbia cominciato a farsi vedere dal capitolo dieci, quando ormai erano due anni che scrivevo, permettendo di avere un approccio con il lettore più efficace, con il ritmo che diventa più veloce e i tasselli della storia che cominciano a dare forma al quadro d’insieme, lasciando da parte gli aspetti filosofici e psicologici che avevano avuto largo spazio finora, specie con Ghendor.
Perché ho puntato tanto su simili aspetti?
Perché si scrive quello che piace e per me la ricerca di consapevolezza, la scoperta di cose nuove e del passato è importante: per questo ho voluto attraverso l’uso di filosofia, teologia, simbolismo farne uno dei perni del romanzo. Non è una scelta commerciale, che si adegua alla maggioranza di libri fantasy che vengono prodotti (cosa propone e fa andare per la maggiore il mercato) perché reputo che sia un modo di dare maggior rispetto al genere, che ha nelle sue corde un grande potenziale per essere una letteratura da cui si può imparare molto. Sono consapevole che il personaggio di Ghendor risulta pesante e pedante, ma questo è il giudizio che ho voluto che si creasse conoscendolo soprattutto all’inizio (non è mai capitato nella vita reale d’incontrare qualcuno con la tendenza a voler insegnare e ad averlo giudicato stancante e seccante?), per mostrare come il restare chiuso nei suoi studi e nella vita quotidiana l’abbiano limitato e bloccato, rinchiuso in una esistenza che non è quella che ha da vivere, dove ha tanto da imparare ancora, piuttosto che cercare d’insegnare agli altri.
Altro punto fatto notare dalla recensione è l’uso che faccio dell’introspezione: è un elemento che uso molto perché è un mezzo che in un libro ritengo sia utile per affrontare cose di cui è difficile parlare; magari una sintesi maggiore può essere utile per essere più incisivi.

La recensione è mirata ed equilibrata a focalizzare punti forti e deboli del romanzo, utile a migliorare come lo è stata quella su Non siete intoccabili, perché ha dato spunti che sono serviti per dare idee su dove intervenire e migliorare il lavoro.

Nel cielo, solitaria

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Poiana

Poiana

Dragon Trainer 2

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Dragon Trainer 2Visivamente Dragon Trainer 2 è superiore al predecessore: belli i paesaggi e le animazioni dei draghi, spettacolari le scene di volo che riescono a trasmettere la sensazione di libertà e infinito nel cavalcare sopra le nuvole e nello sconfinato spazio aperto del cielo.
Ottimamente riuscite le gag, mai fuori luogo e sempre azzeccate, riuscendo così nell’intento di divertire e intrattenere il pubblico.
Il punto più debole è la scelta della storia da raccontare, che non ha la forza del primo Dragon Trainer, dato che è già stata giocata la carta di ribaltare il modo di vedere e vivere (dove i draghi non sono più solo bestie da combattere e uccidere, ma esseri con cui convivere e cooperare formando una società che prospera e sviluppa), proponendo la solita minaccia che arriva da lontano che vuole spazzare via tutto, distruggendo quanto creato e assoggettando a una vita di schiavitù.
Trascorsi sei anni dalla svolta che ha cambiato la vita a Berk, la trama si concentra su Hiccup e sul fatto di dover prendere sulle spalle la responsabilità di guida del suo villaggio, dato che il padre vuole lasciargli il posto, avendo piena fiducia in lui. Ma Hiccup, come ogni giovane ha paura della responsabilità, preferendo viaggiare e scoprire terre nuove, ma soprattutto scoprire chi è. E’ proprio nel suo viaggiare che ritrova la madre, ritenuta uccisa da un drago (si chiarisce così la ragione per cui il padre ce l’ha avuta tanto con queste creature, che non era solo per questione di tradizione dell’essere cacciatore) e capisce da dove ha origine il suo modo di agire, il suo non conformarsi alle regole e mantenere una mentalità incondizionata dalla maggioranza, seguendo il proprio cuore.
Fino a questo punto va tutto bene, è bello lo sviluppo della storia, il messaggio di poter convivere pacificamente anche se si è diversi, l’amore per la natura e gli animali; come è bello quando i genitori si incontrano nuovamente dopo anni di lontananza.
Il film però comincia a scadere con la comparsa del nemico con le solite manie di onnipotenza e conquista, che vuole assoggettare tutti con la forza. Come scade quando s’immette una scelta alla Could Montain (d’accordo che serve per il percorso di crescita di Hiccub per divenire il nuovo capo, ma non ce n’era davvero bisogno). Anche il motivo per cui tutti i draghi finiscono per schierarsi con il nemico non è delle scelte più salde, come è scontato e un po’ debole il modo in cui si riesce ad avere alla fine la meglio (tutto si basa sul legame dell’amicizia e sull’essere uniti nel combattere), lasciando un’apertura nel finale da usare per un eventuale seguito o per un’altra serie televisiva (il nemico sconfitto viene lasciato andare).
Un buon film, che intrattiene e fa trascorrere un’ora e quaranta piacevole e divertente, ma che come trama e messaggi trasmessi fa un passo indietro rispetto al precedente, risultando un’occasione persa per farne un ottimo film, mancando di trovare quel coraggio nelle scelte che, invece di ricalcare cliché noti, avrebbe potuto portare anche al capolavoro.

Stupidi (e dannosi) giochi

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L’uomo nella sua storia ha avuto modo molte volte di dimostrare la sua stupidità e la sua violenza. Le guerre sono gli esempi più evidenti, ma anche nei tempi di pace non ha perso occasione per fare sfoggio dei suoi lati peggiori: sopraffazioni, ingiustizie, da sempre ha prevalso la legge del più forte (da quella dei muscoli a quella di chi aveva maggior potere).
Anche il modo di divertirsi non è mai stato tra i più sani e intelligenti. Ai tempi dell’Impero Romano c’erano le lotte tra gladiatori; nel Medioevo le giostre tra cavalieri. Duelli duri, anche spettacolari, dove la gente accorreva soprattutto per veder scorrere il sangue: difficile da spiegare, ma l’uomo ha sempre provato attrazione per la violenza e per la morte, specie per quella altrui, un modo forse di esorcizzare la paura che ha per la Nera Signora.
Con il progredire delle società, ritenendo di avere raggiunto un elevato livello di civiltà, si è creduto di essersi evoluti, di essere divenuti migliori degli antenati considerati barbari. Invece le cose sono più o meno rimaste le stesse. Stesse guerre, stesse miserie.
Anche i modi di svago non sono migliorati. Allo stadio più che per vedere la partita si va per scaricare le proprie tensioni e frustrazioni, e non si perde occasione di sentir parlare di scontri con feriti e purtroppo alle volte anche morti, cose che nulla hanno a che fare con lo sport.
Per non parlare del passatempo di qualche anno fa dove c’erano giovani che si divertivano a gettare sassi dai cavalcavia cercato di colpire le auto in transito.
Il fenomendo allarmante del knockout game, Adesso, proveniente dagli Stati Uniti, sta prendendo piede il Knock-out game, il gioco del ko. Il passatempo in questione è molto semplice: consiste nell’avvicinarsi a uno sconosciuto, ignaro di quello che sta succedendo e colpirlo con un pugno per mandarlo al tappeto, per vedere se si ha abbastanza forza di stendere una persona con un colpo solo. Non c’è rabbia o odio in questo gesto, solo passare il tempo, mettersi alla prova e mettersi in mostra. Un gioco nato nelle scuole e diffusosi velocemente tra ragazzi annoiati, che non hanno valori e non si fermano a pensare alle conseguenze del loro gesto, al punto che in più di un’occasione c’è scappato il morto.
Come se la stupidità umana e la mancanza di valori non avessero già abbastanza esempi da portare a loro favore. Come se non ci fossero già abbastanza casi da far suonare campanelli d’allarme e rendere consapevoli che è tempo di cambiare registro, che certi atti non sono semplici giochi, e cominciare a educare seriamente e non continuare a far imperversare quel permissivismo che tanto danno ha fatto dagli insegnamenti diffusi da Benjamin Spock.

Addio capitano, mio capitano: la scomparsa di Robin Williams

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E’ di oggi la notizia della scomparsa di Robin Williams.
Viene a mancare un attore dalla lunga carriera, che ha lasciato molti film alle sue spalle: da Hook – Capitan Uncino a L’Uomo Bicentenario, da Mrs Doubtfire a Will Hunting.
Ma il film che me lo farà ricordare e che reputo il migliore nel quale ha recitato è stato L’Attimo Fuggente, con il suo messaggio di libertà e di essere se stessi, di trovare il coraggio di percorrere la propria strada anche se significa andare controcorrente, con quel verso di Walt Whitman che risuona ora più forte che mai. Addio e grazie, Capitano, mio capitano.

Robin Williams in L'attimo fuggente